Intervento di Fabrizio Plessi

Sono nato a Reggio Emilia e fino a 15 anni sono vissuto nella mia città di origine. Dopo essermi diplomato al Liceo Artistico, continuai la mia formazione all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove già mi ero trasferito.
A 15 anni cominciai a frequentare i circoli artistici nella città lagunare, e qui conobbi Edmondo Bacci, artista importante che insegnava all’Accademia.
Bacci, artista “informale”, conosciuto per la serie dei dipinti intitolati “Avvenimenti“, negli anni ’50 frequentava Peggy Guggenheim (1898-1979) e la sua casa. Era una persona e un artista di grande valore, ma modesto. Mi introdusse a Peggy e ai suoi eventi, e lì ebbi l’incredibile fortuna di entrare in contatto e conoscere dei mostri sacri come Chagall (1887- 1985), Max Ernst (1891- 1976), Léger (1881- 1955), Pollock (1912 – 1956). Alcuni di persona, altri attraverso le loro opere.
Era il 1955-56. L’incontro con l’opera di Pollock fu una folgorazione. Il senso di libertà, la forza creativa, l’energia che emanavano le sue opere mi convinsero che la strada che avevo intrapreso era quella giusta: volevo definitivamente diventare un artista.
Ma decisi in quel momento anche di più: un giorno avrei esposto al Guggenheim di New York. Pollock trasferisce pura energia nelle sue opere, quasi primitiva, con il riempimento di tutta la tela che contrasta un’altrettanta primitiva “paura del vuoto”.
Il suo gesto si rifà anche agli indiani d’America, i cui artisti componevano, per caduta di sabbia e polveri colorate, figure antropomorfe ed elementi geometrici.
Ma Pollock porta un nuovo modo di fare arte, con l’action painting, e le sue opere trasmettono quel senso di libertà e di aspirazione a qualcosa, con veemenza, che in qualche modo mi scossero. E la mia aspirazione, che diventò quasi ossessione da quel momento, fu appunto diventare un artista ed esporre un giorno al Guggenheim di New York. Questo accadde nel 1998, ossia più di 40 anni dopo.
Ma la sensazione che provai, quando inaugurai la mostra a New York, fu forte: pensai a quel ragazzino di 15 anni che molti anni prima si mise in testa un sogno e caparbiamente lo inseguì per una vita.
La vecchiaia comincia quando i rimpianti sostituiscono i sogni: è una frase forse retorica, ma vera. In questi giorni compio 80 anni, ma a casa ho sempre i muri bianchi, per la sensazione di pensare a qualcosa per riempirli, per guardare al futuro.
Il sogno è la chiave di tutto, anche di questi tempi.

Biografia

FABRIZIO PLESSI | Tra i maggiori esponenti della videoarte e del linguaggio multimediale.  Legate soprattutto al tema dell’acqua e del fuoco, le sue videoinstallazioni e videosculture combinano monitor con strutture di legno, ferro, pietra, oggetti o materiali diversi, dando luogo a soluzioni di forte impatto emotivo incentrate sulle molteplici possibilità di interrelazione tra immagine, suono, luce e movimento. Presente nei più importanti musei di arte contemporanea, Plessi ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Le principali retrospettive sono state al Guggenheim Museum di New York (1998), alle Scuderie del Quirinale di Roma (2002), al Martin Gropius Bau di Berlino (2004) alla galleria Mario Mauroner Contemporary Art di Vienna (2005). Di particolare significato le installazioni site-specific create per spazi antichi, gotici, rinascimentali e monumentali come Piazza San Marco a Venezia, la Valle dei Templi di Agrigento, la Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova, il Teatro la Fenice a Venezia, interventi mirati a mantenere vivo il dialogo con la classicità, nell’intento di saldare il passato al futuro. Artista ben rappresentato nella collezione della Fondazione Alberto Peruzzo.

Intervento di Will Ramsay

«L’opera che da sempre –  fin dalla prima volta che la vidi – mi comunica qualcosa di importante, è The Wanderer Above the Sea of Fog di Caspar David Friedrich.
Ne adoro l’ottimismo – anche imprenditoriale –  vittoriano e la spavalderia.  Puoi quasi sentire l’odore dell’aria fresca e dei sogni del soggetto dell’opera. 
La persona che si erge su uno sperone roccioso, un viandante, lontano da ogni vegetazione ed immerso nella nebbia, sembra che guardi il mare e l’infinito. Da un lato c’è il fascino e la contemplazione della natura, dall’altro un atteggiamento umile, ma allo stesso tempo orgoglioso e positivo. La potenza della natura e del paesaggio non annientano il viandante, anzi sembra quasi che si unisca ad essa e ne tragga ispirazione.
La mia galleria preferita al mondo è Villa Borghese a Roma, per le sue favolose sculture del Bernini e per il senso di imponenza e classicità. Ma subito dopo viene il Kunsthalle di Amburgo, ed è proprio qui che vidi il capolavoro di Friedrich. 
Per me il valore dell’arte risiede nella capacità di creare una reazione emotiva che va oltre l’estetica, e ciò aumenta il valore di un’opera. Ti parla, ti attira e ti senti connesso ad essa.
Il valore di un’opera d’arte ha un valore intrinseco. “The Wanderer Above the Sea of Fog” mi trasmise subito un grande senso di positività, di energia e di voglia di fare.
E’ proprio con questa visione positiva e con questo ottimismo che negli anni sono riuscito a lanciare molti progetti nel mondo dell’arte che poi hanno avuto successo, ed alcuni innovativi come Affordable Art Fair. Ed è una positività che mi accompagna ancora oggi».

The Wanderer Above the Sea of Fog, Viandante sul mare di nebbia (in tedesco Der Wanderer über dem Nebelmeer), è un dipinto a olio su tela del pittore romantico tedesco realizzato nel 1818 e conservato alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo, ed è per molti un manifesto del Romanticismo (lo era già all’epoca). 
Al centro della composizione, in primo piano, un viandante solitario si staglia in controluce su un precipizio roccioso, dando la schiena all’osservatore: ha i capelli rossi e scompigliati al vento, è avvolto in un soprabito verde scuro e nella mano destra, appoggiata al fianco, impugna un bastone da passeggio.
L’eroico isolamento del viandante diventa viaggio della vita e celebra una presenza onnipervasiva di Dio, ovvero lo stato d’animo misto di sgomento e piacere percepito dall’uomo quando diviene consapevole della stupefacente grandiosità della natura.
Il Viandante davanti al mare di nebbia è rivolto di schiena al fine di permettere una identificazione con l’osservatore, ma non è però un osservatore passivo. È piuttosto un contemplativo e attraverso il sentire emotivo riflette filosoficamente sulla propria natura ed esistenza umana in confronto con la potenza della natura.

Biografia

WILL RAMSAY | Fondatore di Hong Kong Art Fair, di Pulse e di Affordable Art Fair, della quale è anche CEO, ad oggi presente in 10 città al mondo.
Gallerista e imprenditore visionario, ha rivoluzionato il modo di approcciare il collezionismo, soprattutto nella fascia più rivolta ai giovani collezionisti e all’arte emergente.  La sua famiglia ha prestato servizio nell’esercito britannico e nella Royal Navy per cinque generazioni; così anche Will Ramsay per cinque anni dopo l’università.
Ha affermato: «Ma ciò che mi ispirò maggiormente fu l’amore per l’arte e l’idea di renderla democratica. Gli anni ’80 furono un periodo di ottimismo economico dopo decenni di difficoltà e le persone avevano più da spendere. Volevo che spendessero per qualcosa di bello».

El Greco (Domenikos Theotokopoulos), Veduta di Toledo, ca. 1597-99, MET Museum

Intervento di Angelo Bellomo

«Non ho esitazioni nel nominare due opere per me fondamentali, gigantesche: Veduta di Toledo e La visione di San Giovanni, entrambe dell’immenso El Greco.
Per un artista l’arte non è mai una scelta tra mille opportunità, ma l’unica opportunità intorno alla quale si disegna la vita. Me ne innamorai dopo averle viste su un catalogo, a circa 18 anni, e grazie a El Greco compresi quanto effimera sia la definizione di arte contemporanea, una classificazione necessaria ad identificare un prodotto da immettere sul mercato».

Tra i maggiori rappresentanti del Rinascimento iberico e del secolo d’oro spagnolo, Domenikos Theotokopoulos (1541-1614), conosciuto come El Greco, realizzò Veduta di Toledo nel 1610, pochi anni prima la sua morte. Nel dipinto, considerato tra i lavori più importanti e riconosciuti, è possibile riscontrare lo stile inconfondibile dell’artista.
La rappresentazione è infatti oscura e cupa, i tratti del paesaggio appaiono ambigui, enfatizzati dall’aspetto spettrale e minaccioso del profilo della città che emerge da un tetro paesaggio collinare. Fedelmente vengono riprodotti il Castello di San Servando e il Palazzo dell’Alcazar, mentre altri edifici sono probabilmente stati aggiunti da El Greco per equilibrare la composizione.
E’ proprio nella scelta cromatica, impiegata per definire la parte alta della tela,  che si nota lo stile di El Greco, infatti, mai nessuno prima di lui aveva “osato” rappresentare il cielo con queste tonalità e cupezza, anticipando i tratti delle avanguardie del Novecento.
Pochi anni prima della sua morte, El Greco realizzò anche L’apertura del quinto sigillo, detto anche La Visione di San Giovanni, anch’essa conservata al Metropolitan Museum of Art di New York. Il dipinto ha avuto un’importanza fondamentale nella pittura del ‘900.
Si dice che Picasso, affascinato dal dipinto e grande ammiratore del pittore cretese, trovò ispirazione per la realizzazione de Les Demoiselles d’Avignon. Originariamente concepita per un altare laterale della chiesa di San Giovanni Battista di fuori le mura di Toledo, la tela era costituita anche da una parte alta andata distrutta; dove El Greco aveva rappresentato l’amore sacro in contrasto con la parte bassa, rappresentante l’amor profano.
Anche qui, ritroviamo il gusto manieristico per i colori, la rappresentazione tenebrosa di alcune figure, e la ripresa del cielo e gli elementi naturali espressionisti.

Continua Bellobono: «É superfluo evidenziare quanto, queste due opere, siano un concentrato della storia della pittura dalla sua origine ad oggi. Evidente è anche la loro contestualizzazione ai tempi che stiamo vivendo. Veduta di Toledo, con i suoi colori lividi e cupi rappresenta il senso di isolamento e malattia con il quale ci stiamo confrontando, cosa evidente anche nella Visione di San Giovanni. Quando poi riuscii a vederle dal vero al MET, fu un momento di commozione indimenticabile».

Biografia

ANGELO BELLOBONO | Nato a Nettuno nel 1964. Vive e lavora a New York e Roma. Ha partecipato alla XV Quadriennale di Roma, alla IV e V Biennale di Marrakech, alla mostra museale De Prospectiva Pingendi a Todi. Ha esposto in spazi pubblici e privati come l’American University’s Katzen Art Center di Washington, AlbumArte, Spazio Mars di Milano, Fondazione Volume di Roma, Museo di arte moderna del Cairo e quello di Nuova Delhi, Museo Macro di Roma, Multicultural art center Melbourne, Museo Ciac di Genazzano, Palazzo Re Enzo di Bologna, The Othersize Gallery di Milano, Galleria Wunderkammern di Roma, Galleria Changing Role di Napoli, Envoy Gallery di New York, Frank Pages di Ginevra, Biasa ArtSpace di Bali.
Ha vinto il bando Cultura e Arte dalla Fondazione Roma nel 2019, il Premio Celeste per la pittura nel 2005 e quello Artslant per il disegno nel 2009. È stato finalista del Premio Lissone, del Premio Combat e del Premio Portali dello Scompiglio. Nel 2010 è stato invitato ai Martedì critici e nel 2015 al Tedx-Roma. Nel corso degli anni è stato invitato in varie residenze come Bocs Cosenza, Landina Cars Omegna, Fondazione Lac O Le Mon San Cesario di Lecce.

El Greco (Domenikos Theotokopoulos), Veduta di Toledo, ca. 1597-99, MET Museum

Intervento di Denis Isaia

Credo pochi ricordino il logo delle Olimpiadi di Barcellona del 1992. Sopra gli immancabili cinque cerchi c’era un atleta stilizzato. La testa era blu come il mare e le braccia e le gambe gialle e rosse come la Spagna. Da buon campione correva e allargava le braccia per celebrare la vittoria, un po’ come fanno i maratoneti o i ciclisti quando per primi tagliano il traguardo e si aprono al pubblico e al cielo per raccogliere il successo.
E in effetti le Olimpiadi del 1992 furono una festa e un successo, anzi furono un successo proprio perché furono una festa.
Sulla Costa Brava andò in scena il giubileo dello sport e del rinnovato ordine mondiale. La nuova Barcellona ricordò a tutti che i due mondi erano finiti e ne era rimasto uno unico dove migliaia di territori potevano concorrere sulla piazza globale.
Così fece la capitale catalana. Con l’Olimpiade mise in atto un importante progetto di conversione culturale e industriale basato sul turismo, il divertimento e la creatività. Fu un movimento epocale quello intrapreso da Barcellona – ma il discorso vale anche per Berlino, Dubai, Milano e Bruxelles, tra le altre – interrotto in circa trent’anni solo da un infame attacco terroristico e, oggi, dal Neovampirismo sconosciuto del Coronavirus.
Ma torniamo al logo di Barcellona 1992. È così svelto nel tratto e colorato che pare di trovarsi davanti a un dettaglio di un quadro di Mirò, il grande artista nato nell’aprile del 1893 nella capitale catalana. Anche io sono nato ad aprile e nell’aprile del 1992 ero a Barcellona a visitare con i compagni di scuola la città e le sue sfavillanti meraviglie olimpiche. Sulla collina di Montjuic tirata a lucido per l’occasione, si trova dal 1975 anche la Fondazione Joan Mirò.
A quella data per me visitare un museo era cosa piuttosto insolita. Ero abituato a qualche sporadico pellegrinaggio con mio padre al Castello di Rivoli, quello che poi sarebbe diventato il mio personale “tempio”, e a alcune sporadiche visite al polverosissimo Museo Egizio o alla didascalica collezione della Galleria d’Arte Moderna di Torino.
La Fondazione Mirò fu una lavatrice. Entrai in un modo e uscii in un altro. Anni dopo il maestro catalano mi diede forti nausee, ma in quel momento Mirò, l’artista che più di tutti è stato capace di mettere in equilibrio la linea, il colore e la forma, mi trascinò in un universo governato da un unico verbo: FACILE. Sì, Mirò rendeva quegli anni e il mondo a venire facili e possibili.
E infatti dalla terrazza e dal bookshop di quel museo iniziò per me un percorso di studio, scoperta, esplorazioni e fantasie, alcune buone, altre meno, ma senza quella sensazione positiva ed eccedente tutto sarebbe apparso irrimediabilmente inappropriato, stantio, lontano e irraggiungibile. Quella sì che era scuola!

Biografia

DENIS ISAIA | Curatore al MART Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e critico d’Arte Contemporanea. Nel 2006 avvia il concorso per giovani curatori Best Art Practices. Nel 2007 vince il premio per giovani curatori Borsa Arte Giovane di Genova. Nel 2008 è assistente dei Raqs Media Collective per Manifesta 7 con cui co-cura i 45 eventi in 111 giorni del progetto Tabula Rasa. Nello stesso anno fonda il Premio europeo alle passioni di lungo corso alla sua seconda edizione. La sua ricerca si concentra sulle pratiche curatoriali eterodosse. Da novembre 2012 è membro del board curatoriale del DOCVA e dal 2013 curatore insieme a Simone Frangi e Barbara Boninsegna di Live Work, Premio per le Arti Performative di Centrale Fies. Ha sviluppato progetti collettivi e mostre personali fra cui: From and to, Ognuno è internazionale al suo presente, Qatees, Three stories of balance on the threshold of fiction, Il titolo è il pubblico, Panorama4.. Tra le ultime mostre curate, “Contemporanee-Contemporanei” con opere della collezione Fasol presso l’Università di Verona.

Intervento di Elena Zaccarelli

Dietro un dipinto si cela spesso una storia d’amore.
«L’opera di cui sono innamorata rappresenta in realtà la fine di una storia d’amore. Era il febbraio 1971, e David Hockney (Bradford, 1937) aveva organizzato un viaggio a Marrakech insieme al suo grande amore, Peter Schlesinger, suo studente in California per cui il pittore aveva perso completamente la testa.
La loro relazione, impetuosa e bellissima, era ormai agli sgoccioli: una sera, al tramonto, David vide Peter guardare l’orizzonte affacciato al balcone dell’hotel La Mamounia, e lo sentì d’un tratto lontanissimo ed evanescente. Fece allora l’unica cosa possibile per tenerlo a lui: fermò il suo ricordo in una serie di scatti fotografici che successivamente riporterà su tela, costruendo una gabbia di luci e ombre quasi a volerlo catturare e non farlo andar via.
A dicembre sono stata a Marrakech, e una sera, passeggiando per i giardini a La Mamounia, sono passata davanti a quelle ringhiere verdi: mi è parso di vedere Peter guardare il tramonto, e David dietro di lui guardare il tramonto del loro amore».

Era il 1966, quando Hockney conobbe il diciottenne Schlesinger, suo studente all’UCLA. Fu il suo primo amore e la più grande musa nei successivi cinque anni. All’epoca, Hockney aveva già riscosso un discreto successo. Ogni loro viaggio, a Londra, Parigi, Roma, Marrakech, diventa la cornice del loro idillio amoroso e delle rappresentazioni di Hockney. L’opera “Sur la terrasse” segna una svolta epocale nella vita personale e professionale dell’artista. La tela fu iniziata da Hockney nel marzo del 1971 e completata durante l’estate quando terminò la relazione con Peter Schlesinger. La tenerezza e la nostalgia di questo momento è inconfondibile.
Schlesinger è ritratto con le spalle rivolte all’artista, mentre osserva i lussureggianti giardini che si trovano oltre la terrazza dell’Hôtel de la Mamounia di Marrakech. Pieno di romanticismo, “Sur la Terrasse” rappresenta l’ultima rappresentazione di Schlesinger da parte di Hockney. Si basa su una serie di fotografie scattate durante un loro soggiorno trascorso a febbraio.
Posizionandosi oltre la cornice, come voyeur, Hockney si lascia ad un addio privato verso il suo amante, rappresentato attraverso le porte-finestre aperte, attratto verso nuovi luoghi.
È un ritratto profondamente commovente di estraniamento, i cui temi sarebbero stati rivisitati nell’iconico dipinto del 1972 “Portrait of an Artist (Pool with Two Figures)“.
In oltre 60 anni di carriera, David Hockney ha utilizzato differenti medium per ritrarre i suoi soggetti, mantenendo una particolare attenzione per la trasposizione su tela delle emozioni. E’ considerato uno dei leader della Pop Art degli anni ’60 e tra i più influenti artisti britannici del XX secolo.

Biografia

ELENA ZACCARELLI | Esperta di arte italiana del XX secolo, si occupa di fornire valutazioni e raccogliere opere d’arte italiane e internazionali, viaggiando tra le varie sedi Christie’s e seguendo le aste principali di arte moderna e del dopoguerra. Laureata in Lettere Moderne con una specializzazione in Storia dell’Arte presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, lavora da dieci anni nella sede italiana di Christie’s, dove ha ricoperto vari ruoli ed attualmente è Specialist di Modern & Contemporary Art per Christie’s.

Intervento di Alessandro Piangiamore

L’artista siciliano Alessandro Piangiamore per la rubrica ha presentato un’opera del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich.

«Gebirgslandschaft mit Regenbogen (Paesaggio montano con arcobaleno) è pervaso di una forza immensa certamente dovuta alla disparità di forze tra uomo e natura. Un omino piccolo che osserva un arcobaleno, effimero prodigio della natura e ponte di speranza. Mi piace quell’omino, lo immagino intento a sperare che quell’arcobaleno non scompaia, sapendo per certo che la sua aspettativa verrà disattesa».

L’opera fu realizzata tra il 1809 e il 1810 dopo un viaggio in Germania, lungo le coste del Mar Baltico.
In primo piano è raffigurato un viandante, appoggiato ad un roccia e a un bastone. Notiamo i pantaloni bianchi e la camicia rossa, fortemente in contrasto con la tinta dell’ambientazione circostante. Egli volge lo sguardo verso lo sfondo dove si apre un oscuro abisso.
Il paesaggio raffigurato si caratterizza per un susseguirsi di arbusti e di montagne che si inclinano verso il centro del dipinto. Al di sopra, si alza una luce a forma di arcobaleno.
Nelle opere di Friedrich è tipico trovare un netto contrasto tra il primo e secondo piano della rappresentazione per separare il piano fisico e quello spirituale dell’esistenza.
Ciò avviene anche in questo dipinto. In primo piano, il sole illumina il fogliame e gli abiti del viaggiatore, mentre l’oscurità della notte riempie il resto dell’immagine. Entrambi i mondi sono unificati dalla presenza dell’arcobaleno, che nel racconto della Genesi dell’Arca di Noè simboleggia l’alleanza tra Dio e l’umanità.  

Continua Piangiamore:
«Mi piace quella piccola figura soprattutto perché mi ricorda un quadro che mia nonna teneva in sala da pranzo. C’era un fiume, un mulino ad acqua, delle montagne ed un piccolo omino dai tratti indefiniti con una camicia rossa (proprio come nel dipinto di Friedrich), minuscolo ma prepotente all’interno del paesaggio.
Ecco, io credo di essermi innamorato dell’arte con quel quadro, salivo sul divano per guardarlo da vicino, me lo ricordo ancora bene, più ne parlo più ritorna vivo».

Biografia

ALESSANDRO PIANGIAMORE | Nato a Enna nel 1976. Vive e lavora a Roma e a Torino. Tra le partecipazioni più recenti, mostre personali, La Chair des choses (Dans la poussière, les abeilles et le pétrole font la lumière), Centre d’art contemporain La Halle des bouchers,Vienne, curated by Marc Bembekoff and Xavier Jullien, La Chair des choses (Une Rose et quatre vents), Espace arts plastiques Madeleine-Lambert, Vénissieux, curated by Marc Bembekoff and Xavier Jullien, Marango, Casa Italiana Zerilli-Marimò, New York, in collaboration with Magazzino Italian Art, curated by Vittorio Calabrese, mostre collettive, Luogo e Segni, Punta della Dogana, Pinault Collection, Venice, curated by Martin Bethenod and Mouna Mekouar, Nature is what we see, Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano, CH, Ragione e Sentimento, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.

Intervento di Salvatore Mirabile

L’arte in tempi di “colera”. Due artisti, pur nelle profonde diversità, accomunati da un approccio rivoluzionario alla ricerca e legati da un triste destino: la morte precoce all’età di 28 anni momento in cui erano presenti due ondate epidemiche la spagnola e l’infezione da hiv. Due eccelsi artisti : Jean-Michel Basquiat ed Egon Schiele,  ma accomunati da una forza  artistica ed espressiva simile.

La Fondazione Louis Vuitton avvicinò in una mostra del 2018 la loro forza artistica ed espressiva. Ripensandoci oggi a quella mostra che vidi due anni fa e che mi emozionò, ritrovo dei temi attuali e correlati al contesto che stiamo vivendo.
La mostra su Basquiat  presentò 120 delle sue opere, dagli albori della sua carriera nel 1981, sino alla morte nel 1988. La mostra su Egon Schiele, nato nel 1890 a Vienna, comprendeva 110 dipinti. Fu possibile ammirare moltissime opere dell’uomo che fu in assoluto il primo esponente dell’espressionismo viennese, nonché pupillo di Gustav Klimt.
Basquiat nasce come writer di strada, i muri del Lower East Side di Manhattan erano la sua tela e, insieme a Keith Haring, riuscì a nobilitare l’arte del graffitismo in America, portandola allo stesso livello dei quadri dei grandi pittori. Nei suoi primi lavori di strada si intravede una profonda consapevolezza della cultura moderna e l’impulso di comunicare su vasta scala il suo punto di vista come uno dei pochi artisti di colore.
Negli anni successivi abbandona lo street writing e si dedica alla creazione di cartoline; per un gioco del destino, conoscerà Andy Warhol in un ristorante di SoHo, proprio cercando di vendergliene alcune. Da qui inizia la sua ascesa nel mondo della pittura.
Purtroppo, la vita e la prolifica attività artistica di Basquiat si interromperanno bruscamente a causa di un’overdose di eroina.

Una vita breve, ma tumultuosa, diede ad Egon Schiele l’ispirazione necessaria a realizzare quadri dall’erotismo malinconico. Infatti, nonostante la giovane età e complice il periodo storico in cui visse, il pittore austriaco si distinse subito per la capacità dei suoi lavori di trasmettere emozioni forti, permettendo al lato più fragile e tormentato dell’uomo di esprimersi. Oltre all’espressività facciale, i soggetti rappresentanti da Schiele comunicano l’angoscia e la sofferenza attraverso i loro corpi, nudi e scarni, erotici e malinconici. Nei suoi quadri non ci sono filtri che mascherino l’animo umano, ma le immagini sono brutalmente oneste nella loro comunicatività.
Il pittore viennese non ebbe solo una vita tumultuosa, ma anche la morte non gli fu clemente: egli si spense tre giorni dopo la morte della moglie incinta, entrambi vittime della febbre spagnola che colpì milioni di persone durante la Prima Guerra Mondiale. Prima di morire, Schiele dipinse il quadro “La famiglia”, che vede lui, la moglie e il loro futuro figlio accovacciati insieme.

Biografia

SALVATORE MIRABILE | Chirurgo estetico, collezionista, mentore di artisti, cittadino del mondo, alterna il suo tempo tra l’Italia ed il Brasile, ma anche Parigi e Barcellona.

Intervento di Denis Curti

L’opera presentata è la rappresentazione di un ricordo passato nel quale ciascuno di noi può riconoscersi, e come un avvenimento autobiografico di dolore, può diventare un luogo di rifugio per vivere un’infanzia più serena.
Ne parla Denis Curti, Direttore Artistico della Casa Tre Oci, che ha scelto un’opera intima ed emotiva della fotografa Moira Ricci (1977).

«Ho scelto questo scatto in bianco e nero di Moira Ricci, un’opera che mi sta molto a cuore. E’ una fotografia che amo moltissimo, la prima che ho acquistato nella mia piccola collezione. Io sono un curatore più che un collezionista, e ho comprato questa immagine perché è in grado di sviluppare un sentimento che mi ha fatto commuovere molto.
Moira Ricci è la ragazza vestita di nero che si vede a destra dell’immagine, e guarda dall’alto verso il basso le due bambine in colonia. Le si riconosce per la classica divisa, per il cappellino e la classica maestra, che tiene le mani sulle loro spalle. Una delle due bambine è la mamma di Moira Ricci.
Con una semplice funzione digitale, l’artista si inserisce all’interno della fotografia, e lo fa perché sente la mancanza della madre, scomparsa improvvisamente».

Nel 2004, Moira Ricci perde improvvisamente sua madre, e da quel momento non riesce a smettere di guardare gli album delle sue foto. Ricordi di famiglia che non appartengono all’artista, al tempo non ancora nata, ma che le facevano scoprire ogni volta un altro pezzo della vita della donna.

Allora Moira Ricci, ripercorrendo gli album di famiglia, le fotografie che sono contenute in questi album prova questa nostalgia e dice di volersi avvicinare di più ed entrare nel vivo.
Continuavo a guardare le sue foto, volevo solo entrare lì per stare con lei. Mi sono inserita nel modo più preciso possibile per rendere verosimile il mio sogno di poterle stare ancora accanto, di recuperare il tempo perso e proteggerla», spiega l’artista.
L’artista, infatti, si è inserita nelle fotografia cercando di mimetizzarsi il più possibile attraverso gli abiti e le pose. Rimane comunque elemento straniante, un fantasma dal futuro che cerca di comunicare attraverso l’intensità di sguardo rivolto sempre verso la madre.

«Ho cercato di creare un dialogo, una sorta di collisione temporale tra presente e passato nella quale il mio ricordo di quel particolare momento non esisteva. Questo lavoro, che si compone di tantissime immagini, prende il titolo dalla data di nascita e di morte della madre. 20.12.53-10.08.04 . E’ un lavoro del 2004, ed è il tentativo da parte dell’artista di ricostruire una sorta di cronaca familiare, di ritornare alle origini e di sopprimere la distanza.
Ho scelto questo lavoro perché mi sembra molto attuale e pertinente ai momenti che stiamo vivendo».

Biografia

DENIS CURTI | Direttore del mensile “Il Fotografo” e direttore artistico della Casa dei tre Oci di Venezia, direttore artistico del Festival della Fotografia di Capri. Fondatore del Master post Universitario di fotografia in collaborazione con NABA e Fondazione Forma. Consulente della Fondazione di Venezia per la gestione del patrimonio fotografico. Fondatore della società PICC (Photography Italian Culture Capital) e fondatore di Still (fotografia, showroom e galleria). Curatore di mostre e rassegne fotografiche, autore di libri, critico fotografico per testate giornalistiche e quotidiani, è stato per diversi anni il direttore dell’Agenzia Contrasto che pubblicava in Italia i lavori dei fotografi della famosa agenzia Magnum.

Link video

Intervento di Giorgio Fasol

«Era il 1965. Non mi ero ancora interessato al collezionismo, ma ero un giovane curioso. Conobbi lo stampatore, editore e artista Renzo Sommaruga in una galleria, dove mi avvicinò e mi disse: “Non dovete guardare le croste, ma le vere opere!”.
Cominciammo a frequentarci. Renzo era una persona incredibile, cominciò a stampare poesie accompagnate da litografie e incisioni di artisti importanti. Un giorno mi mostrò la bozza di un progetto editoriale: poesie di Quasimodo accompagnate da 9 acqueforti di Gentilini, Saetti ed altri, e tra queste una di Capogrossi. Fu una rivelazione. Mi si aprì un mondo nuovo. Non avevo mai visto qualcuno cercare di usare un linguaggio nuovo, fatto di segni, che mi fece entrare in un mondo sconosciuto. Una vera scoperta. Capii che l’arte può darti nuovi strumenti per capire la realtà in un modo che non avevi immaginato prima».

Giuseppe Capogrossi nasce a Roma il 7 marzo 1900. Esordisce come pittore figurativo fino al secondo dopoguerra, quando rivoluzionò la sua arte dedicandosi all’informale segnico. La sua arte è caratterizzata da uno stile peculiare e inconfondibile, legato alla rappresentazione di segno grafico elementare e fortemente comunicativo, che viene ripetuto nelle più svariate combinazioni. Negli anni a questo elemento primario, definito spesso “pettine” o “rebbio”, l’artista ampliò il repertorio introducendo lettere, zig zag, ma anche tratteggi. Partendo da segni elementari, abbinati secondo schemi sempre mutevoli, Capogrossi diede vita a infinite variazioni sul tema finalizzate ad indagare il rapporto fra il segno e lo spazio e a sviluppare il senso ritmico dell’immagine.

«Un’altra esperienza illuminante avvenne nel 1969. Andai a Milano, ancora con Sommaruga, per uno dei suoi viaggi per un progetto editoriale, e qualcuno mi porse in mano un foglio A4 bucherellato. Fu “un altro colpo in testa”. Un artista che mi faceva entrare in una nuova dimensione, in maniera apparentemente semplice.
Fu solo più tardi che riuscii a comprare un’opera di Fontana, in una galleria privata. L’opera, piccola, costava 3 milioni di lire, pochi per un artista così ma non pochi per me che erano giovane e con pochi soldi. Presi coraggio e proposi al gallerista un acquisto “a rate”, ossia il primo milione subito e il resto quando ne avessi avuto disponibilità. Accettò…
Era una anilina grigia con buchi ed ovali bianchi, ed il tutto mi ricordava una di quelle foto dei nonni, dove le facce emergono dagli ovali. La memoria che emerge da un’altra dimensione».

E’ il 1950 quando Fontana dà inizio al movimento dello Spazialismo.
Le sue opere sono caratterizzate dalla monocromia su cui l’artista agisce, non attraverso il tradizionale pennello, ma con strumenti non convenzionali, come coltelli, rasoi ed oggetti simili. Trattandosi di un gesto facilmente replicabile, l’artista, per distinguere le proprie opere da quella di imitatori, poneva dietro ad ognuno dei suoi lavori, delle frasi senza senso, apparentemente attribuibili solo a lui.

Biografia

GIORGIO FASOL | Nato a Verona nel 1938, è uno dei più importanti collezionisti d’arte italiani. Dalla sua grande passione per l’arte contemporanea nasce una significativa raccolta privata: Agi Verona Collection. Nel 1988 concede il primo prestito: cinque opere, esposte in occasione di Arte Fiera Bologna per una mostra curata da Silvia Evangelista e dedicata alla ricerca sul collezionismo italiano. Da allora le opere appartenenti alla sua collezione non hanno più smesso di viaggiare, richieste e prestate a Musei e Fondazioni di tutto il mondo vengono esposte in mostre e rassegne dedicate al linguaggio artistico contemporaneo. Nel 2010, dal 7 maggio al 22 agosto, Il Mart di Rovereto gli dedica la mostra Linguaggi e Sperimentazioni a cura di Giorgio Verzotti con l’intervento straordinario di Hans Ulrich Obrist. Vengono esposte 70 opere di giovani artisti (dai 20 ai 35 anni) realizzate tutte tra il 2000 e il 2010, altre 25 opere di artisti internazionali vengono depositate al Museo Mart in comodato d’uso. Numerose le interviste su riviste di settore e quotidiani nazionali.

Intervento di Marco Trevisan

La mia testimonianza è riferita al cambiamento e ad un punto di svolta che hanno riguardato la mia vita e che a volte l’arte può innescare. Mi occupo di arte da circa 25 anni, ma non è stato un inizio folgorante, di quelli che ti illuminano fin da quando sei piccolo.
A 19 anni mi sono iscritto a Economia a Venezia e non avevo ancora ben chiaro cosa fare da grande. Poi un giorno entrai a visitare la Collezione Peggy Guggenheim, a Venezia appunto.  E qualcosa successe. Non la voglio mettere sul piano intellettuale, ma piuttosto delle sensazioni, dell’istinto. Mi sono sentito in un posto accogliente, che mi parlava.
E per qualche motivo pensai: “un giorno voglio lavorare in un posto così”; 10 anni più tardi sarei andato a lavorare proprio lì, in quella che era la casa di una delle collezioniste più importanti del XX secolo, Peggy Guggenheim.
Ed è un posto, per quei pochi che non ci sono mai stati, che parla di arte, illuminazioni, trasgressioni, bellezza e particolarità. Lo stesso palazzo – Palazzo Venier dei Leoni –  è atipico, con un terrazzo ampio sul Canal Grande, e non tutti sanno che ciò nasce dal fatto che l’originario progetto del 18mo secolo  prevedeva più piani, ma pare a causa di ristrettezze economiche sopraggiunte della famiglia Venier, la costruzione si fermò ad un piano lasciando un ampissimo roof terrace, molto suggestivo.   

Ma non solo il palazzo mi “parlò”; venni anche “folgorato” da più di un’opera. Tra queste senz’altro “L’impero delle luci” di Magritte. Un’opera celeberrima ed un tema ripetuto più volte dal 1949 da René Magritte: una al Guggenheim di Venezia del ’54. E la prima del ’49 è andata in asta da Christie’s nel 2017 realizzando 20 milioni di dollari – ma quello di Venezia avrebbe senz’altro più valore.

La rappresentazione è semplice: una casa immersa nel buio, illuminata solo da un piccolo lampione, e sullo sfondo un cielo azzurro cosparso di nuvole bianche. Ma è un’opera che spiazza perché lavora sul contrasto, sull’ossimoro apparentemente non reale. La notte e il giorno, il buio e la luce,  contemporaneamente presenti. 

Disse lo stesso Magritte:

«Ho avuto l’idea della notte e del giorno che esistono insieme, come fossero una sola cosa. E’ ragionevole: nel mondo il giorno e la notte esistono nello stesso tempo. Proprio come la tristezza esiste sempre in alcune persone e allo stesso tempo la felicità esiste in altre».

Trovo che questa contemporaneità di giorno e notte abbia la forza di sorprendere e di incantare. Chiamo questa forza poesia. L’effetto che si crea è quello di inquietudine e spaesamento.  Questa Inquietudine nasce dalla contraddizione tra tutto ciò che conosciamo e di cui siamo certi e ciò che sembra mettere in dubbio le nostre certezze. Improvvisamente. E qui il collegamento con il presente e i fatti di cronaca mi sembra evidente. L’opera sembra dire: la natura dell’uomo è fatta per non avere certezza, l’angoscia ed il timore di qualcosa di imminente ci accompagnano, ma sta anche a noi accettare questo stato e accettandolo si può affrontare non dico con più serenità, ma con più ‘consapevolezza e centratura’ la realtà, come direbbero le discipline orientali. ”

Biografia

MARCO TREVISAN | Direttore della Fondazione Alberto Peruzzo,  ex Direttore Generale di Christie’s Italia, si occupa di arte e collezionismo da più di vent’anni. È stato responsabile relazioni corporate per la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, responsabile comunicazione e PR per gli Usa da New York per FMR Art’é, direttore di Affordable Art Fair Italia (dopo aver portato il progetto in Italia), ed ha collaborato tra gli altri con IED, Contrasto, IlSole24Ore.

Link video