Intervento di Nicola Maggi

Non ricordo bene che anno fosse, ma il posto l’ho bene impresso nella mia memoria: un vecchio casolare nella campagna toscana, a pochi chilometri da dove vivevo all’epoca. Doveva essere più o meno il 1995, l’era del Grunge si era da poco conclusa, iniziavano i miei studi universitari e in quella casa a ridosso di un bosco di faggi nacque uno dei miei più grandi amori: quello per l’opera dell’artista austriaco Hundertwasser, in particolare, per un suo lavoro del 1955: EinRegentropfen, der in die Stadtfällt – Un goccia di pioggia che cade sulla città. Me lo fece scoprire una cara amica, che ormai non vedo da un secolo, mentre sfogliavamo alcuni cataloghi d’arte. Ricordo di averlo utilizzato anche per una raccolta giovanile di poesie, rigorosamente autoprodotta.

Hundertwasser non è di quegli artisti che si studiano molto all’Università, ma la sua visione del mondo, che già a 23 anni lo aveva spinto a volersi “liberare del bluff della nostra civiltà”, come il suo spirito ecologista e l’attenzione per la consapevolezza dell’identità che attraversava tutta la sua vita e opera, conquistarono il mio animo di ventenne. Riguardandolo oggi e rileggendo le sue interviste rimango ancora colpito dal suo essere estremamente di attualità. Nelle sue parole come nelle sue opere si possono trovare elementi e concetti che oggi sono al centro del dibattito sia artistico che politico. Dalla “decrescita felice” allo sviluppo sostenibile. Il tutto realizzato attraverso un serrato confronto con l’opera di Egon Schiele, Walter Kampmann, oltre che con quella di Paul Klee e Gustav Klimt. Ma forte in lui è anche il riferimento all’arte medievale, ai pittori indiani, orientali e africani, come a quelli indios e maori.

Da questi presupposti si generava così un mondo di sogno regolato da proprie leggi che, a tratti, sembra sfiorare quello della musica, mia altra grandissima passione fin da giovanissimo. Quella goccia di pioggia che cadeva su una città ritratta con una prospettiva a volo d’uccello racchiudeva in embrione tutto ciò.  La visione ideografica, di ascendenza giapponese, che ci consegnava in questo acquerello su carta da pacchi spiegazzata e preparata con carta copiativa, si sarebbe poi sviluppata nelle sue architetture e in tanti altri progetti dove la centralità dell’acqua come elemento naturale, tranquillizzante e regolatore, è costante come quella del tempo: è la sua corrente che ci trascina, irresistibile, in vortici mutevoli di narrazioni che paiono comporsi per poi scombinarsi e dar vita a nuovi racconti.

In quel momento non potevo saperlo, ma dopo 25 anni mi accorgo che gli artisti che mi colpiscono di più hanno molti tratti in comune con il suo lavoro.

Biografia

NICOLA MAGGI | Giornalista professionista e storico della critica d’arte, classe 1975 è ideatore e co-fondatore di Collezione da Tiffany Srl. In passato ha collaborato con varie testate di settore per le quali si è occupato di mercato dell’arte e di economia della cultura.

Intervento di Salvatore Iaconesi

Sono Salvatore Iaconesi, artista, e assieme a mia moglie Oriana Persico coordiniamo un network di artisti, designer, antropologi, ricercatori che si chiama Art is Open Source e un centro di ricerca che si chiama HER She loves data, ed usiamo l’arte ed il design per comprendere il ruolo della tecnologia nella nostra società, che è fondamentale per come si evolve la società stessa.
Chi mi conosce sa quanto sia importante il considerare la malattia per capire la società. Nel dare il nostro contributo a questa iniziativa della Fondazione Alberto Peruzzo, non possiamo dal nostro punto di vista non considerare il momento in cui ci troviamo. 
Nel 2012 mi sono ammalato di cancro al cervello e proprio le tecnologie, specie quelle ubique e legate ai dati, mi hanno aiutato a riposizionare la malattia stessa come al centro della società e della cultura e non un fatto di un singolo. 
Al diffondersi di questa pandemia è successa una cosa particolare: mi sono purtroppo riammalato di cancro. Ora sto bene, ma è stata una opportunità per osservare fenomeni che riguardano sia me che il mondo in relazione alla malattia. Ancora una volta i dati sono stati un elemento fondamentale, anche per capire questa compresenza e questo scontro tra realtà mia individuale e realtà globale. In primis perché la sanità era ed è in gran parte assorbita dalla lotta al coronavirus e ad esempio l’ospedale aveva difficoltà a rilasciare dati che riguardavano solo me, la mia condizione.
In questo mondo ipertecnologico e interconnesso i dati ci consentono di capire meglio come vanno le cose, ma non per il loro contenuto, come diceva Mcluhan, ma come fenomeno sociale, e quindi anche legato alla cultura e alla psicologia per esempio.
Vorrei proporvi un viaggio attraverso tre nostre opere fatte con i dati, sul tema del posizionamento dei dati nella nostra società, per capire meglio ciò di cui abbiamo appena parlato. 
La prima di queste opere è ‘Constrained Cities’ (città vincolata, bloccata) ed è un’opera indossabile. Parla di come le intelligenze artificiali, raccogliendo tanti dati su di noi, si facciano un’idea su quali zone della città siano più adatte a noi; ad es. se guadagniamo molto potrebbe esser adatta a noi una zona più ricca, o se la mia ragazza abita in un certo luogo, magari è quello il più adatto a me. Le intelligenze artificiali possono decidere per ciascuno quale sia la zona migliore della città, e nell’opera ciò viene portato all’estremo: una fascia indossabile emette delle scosse se mi allontano dalle mie zone più adatte. Cerca di dirottarti dove è meglio per te. Se due persone nello stesso posto hanno una risposta diversa – scossa e non scossa – si possono chiedere che cosa ci sia diverso tra loro. Quindi i dati e la loro computazione ci consentono di uscire dal dominio tecnico e di entrare in quello esistenziale; questo è un passaggio di fondamentale importanza nella nostra società. Addirittura nel caso di Constrained Cities, ciò avviene anche attraverso una piccola sofferenza, l’intelligenza artificiale mi fa male in qualche modo per darmi un messaggio.

Un’altra opera d’arte che abbiamo realizzato e che si intitola ‘Baotaz’ analizza l’ambito della possibilità. Baotaz è un elmetto indossabile – aspetto che ci piace, che l’intelligenza artificiale sia indossabile – e crea un senso aumentato. Questo senso è collegato a enormi quantità di dati. Ad es. com’è un senso collegato al cambiamento climatico, tramite un qualcosa tipo vibrazione, calore, etc? Ad oggi l’unico modo che abbiamo di fare esperienza di fenomeni globali – il cambiamento climatico, ma anche la povertà, e pure la diffusione del coronavirus – è attraverso una enorme quantità di dati. Ma noi siamo esseri umani limitati e facciamo fatica a confrontarci con questa grande quantità di dati. La sfida è capire come avere un senso aggiunto, questo elmetto, che ci consente di comprendere meglio quei dati, quindi il mondo in cui viviamo.
Altra opera importante per noi è Stakhanov – dal nome del minatore russo. Noi chiamiamo quest’opera scherzosamente Big Data God, perché è come un oracolo. Quando lo porti in un posto, comincia a raccogliere informazioni e dati su quel posto – dai social network e dagli open data di quel posto, ad esempio – in maniera decisa, ed inizia ad emettere delle previsioni, come appunto farebbe un oracolo. Quando accumula dati a sufficienza ed elabora una previsione, stampa su lunghi rotoli di carta. Dopo un po’ si possono avere centinaia di metri di carta stampata e le persone presenti di solito fanno a gara per andare a leggere qualcosa sul loro futuro. Guardando in alto rispetto all’opera si possono notare 4 bandiere, e su ognuna di esse c’è l’elemento di una nuova cosmogonia, che è una parte importante della nostra vita per posizionarci individualmente in questo universo, che oggi è un universo fatto anche di tecnologie, dati, intelligenze artificiali, assistenti digitali, etc., che hanno un impatto tangibile sul nostro vivere, ad es.  quando ci danno una promozione, o quando ci alzano un premio assicurativo. 
Volevo chiudere con questo elemento: abbiamo una profonda necessità di costruire nuove cosmogonie e nuove ritualità per abitare il pianeta in cui ci troviamo, e sarà fondamentale per l’evoluzione della nostra civiltà. 

Biografia

SALVATORE IACONESI | E’ un artista, un designer e un ingegnere robotico. Era un pattinatore e un raver, e tutte queste pratiche, dentro e fuori la tecnologia, hanno in comune la passione principale di Salvatore: esplorare i gradi di libertà degli esseri umani nel mondo contemporaneo. Nel 2002 Salvatore si ammala di cancro al cervello. Nel 2012 decide di lasciare l’ospedale per avviare “La Cura”, una performance globale per riappropriarsi del proprio corpo e della propria identità creando una cura partecipativa open source per il cancro.

ORIANA PERSICO | E’ una scienziata della comunicazione, una scrittrice e una cyberecologa. È entrata in AOS nel 2007.

“HER She loves data” è un centro di ricerca culturale, fondato da Salvatore Iaconesi e Oriana Persico,  di prossima generazione che utilizza i dati e il calcolo (algoritmi complessi, intelligenza artificiale, reti, ecosistemi) per creare processi di accelerazione culturale attraverso l’arte e il design e i risultati della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. 

Art is Open Source è un network di artisti, designer, antropologi, ricercatori. 

Intervento di Matilde Cadenti

«Pensando a un’opera che possa esprimere come sto vivendo questi tempi in cui la nostra normalità è stata sconvolta nel profondo, mi viene in mente l’artista Marco Maria Zanin, che nella sua ricerca artistica ha spesso esplorato le aree rurali e periferiche della sua (e mia) terra di origine, il Veneto.
Sto infatti trascorrendo questo periodo di quarantena tra le campagne vicino a Mogliano, e dalla finestra di casa posso scorgere alcuni ruderi campestri, che mi rimandano col pensiero alle fotografie della serie Cattedrali rurali di Zanin. Queste rovine perdute nella campagna veneta si stagliano immobili e solenni in un fermo immagine quasi irreale: sembrano essere state rimosse dal flusso del tempo, sospese e congelate, eppure dovevano essere abitazioni, o forse rimesse, luoghi simbolo di una temporalità profondamente legata alla terra, in cui il tempo è inteso come scansione di tanti piccoli rituali legati alla famiglia e alla casa. In questi tempi complessi, di isolamento forzato, è inevitabile pensare agli affetti.
Ma anche a Venezia, al lavoro, al ritmo della città, che così tanto differisce da quello agreste in cui sono confinata: lento, scandito dal lavoro della mano dell’uomo, espressione del sacro vincolo che le persone in passato sapevano stabilire con la terra. Un lavoro che si fa matrice del linguaggio dell’uomo e della sua identità, espressione di una collettività e di una società che – passato questo frangente emergenziale – tenterà di ricostruire molte cose, forse partendo proprio da quelle tradizioni e saperi di cui l’operosità agreste è intrisa».

Biografia

MATILDE CADENTI | Dà vita alla galleria Marignana Arte a Venezia nel 2013 assieme a Emanuela Fadalti. Situata in un sestiere, quello di Dorsoduro, strategico per le arti del nostro tempo e considerato il cuore pulsante del contemporaneo a Venezia, si trova a pochi passi dalla Collezione Peggy Guggenheim, da Punta della Dogana e da Fondazione Vedova. Il programma della galleria esplora varie espressioni della ricerca artistica contemporanea, prestando attenzione sia alle proposte delle nuove generazioni che alla valorizzazione di artisti già affermati in campo internazionale. Marignana Arte è inoltre impegnata in collaborazioni internazionali che prevedono anche la realizzazione di progetti con istituzioni sia private che pubbliche.

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Marco Maria Zanin, Cattedrali Rurali, Gallinaro

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Marco Maria Zanin, Cattedrali Rurali, Vanzo

Intervento di Matteo Bergamini

Avevo circa 11 anni quando l’arte si è affacciata nella mia vita. In realtà, come spesso accade con le passioni, non è stata una stretta di mano cordiale, ma una folgorazione: avevo visto Picasso! Come mi capitava anche con i libri di storia, amavo partire dal fondo: trovavo date più vicine ai miei anni, che riuscivo a posizionare bene nella mia linea temporale di bambino, e volti di uomini che riconoscevo anche nei nomi delle strade…la possibilità di traslarli da un libro alla realtà mi rassicurava rispetto a secoli e vicende che sentivo lontanissimi, mi dava la possibilità di “immaginare” la storia.

E immagino che fu per questo motivo che mi colpì così tanto Cabeza de mujer llorando con pañuelo, che ancora oggi vado a salutare ogni volta che mi trovo a Madrid, al Reina Sofia. Era lì, a confronto con Raffaello, in un capitoletto dedicato all’idea del bello. E mentre il pittore urbinate pacificava gli animi io quasi mi esaltavo per questa contrazione di forme del 1937, per la capacità di svelare violentemente il senso del dolore della donna, della tragedia della storia nei suoi colori acidi. Scoprii anni dopo che questi ritratti servirono alla composizione di Guernica e che il volto delle donne piangenti era ispirato al viso di Dora Maar.

Penso ancora oggi che mi iscrissi all’Istituto d’Arte di Modena a causa di quell’immagine. Fu però una mostra che cambiò davvero la mia percezione, che mi spinse a iscrivermi all’Accademia di Belle Arti. Era il 2002, avevo 17 anni, e con un amico una mattina anziché andare a scuola prendemmo il treno per Milano; lui voleva farsi un giro, io avevo letto su un settimanale di una esposizione intitolata “New York Renaissance. Dal Whitney Museum of American Art”, a Palazzo Reale.

New York era un miraggio, le Torri erano implose da poco e avvicinarmi idealmente alla Grande Mela attraverso una serie di “capolavori della Pop Art” mi incuriosiva. La curiosità, camminando da una sala all’altra, si trasformò in euforia, in felicità, in commozione, in estasi: per la prima volta scoprivo l’America! E non alla televisione, non sui giornali ma lì, nelle sale di un museo dove mi trovavo faccia a faccia con i mozziconi giganti in poliuretano di Claes Oldenburg, il Grande Nudo Americano di Tom Wesselman, l’iperrealismo urbano di Richard Estes, e poi Keith Haring, gli aspirapolvere di Jeff Koons, i messaggi di Barbara Kruger, Andy Warhol, Jim Dine e Jackson Pollock, solo per dirne alcuni. Quella mostra, lo ricordo lucidamente, fu una sterzata al mio modo di vedere le cose, di immaginare i musei, di pensare all’arte che – in questo modo, cioè “dal vivo” – si faceva sempre più vicina a me, sempre più limpida, mentre a scuola ovviamente la classe restava indietro sul programma…e in fondo ai libri non si arrivava mai.

Non avevo ben chiaro se volessi fare il fotografo, l’artista nel senso pittorico del termine, il critico…però ero ben consapevole che volevo vivere circondato da “quelle cose” che nessuno dimostrava di aver interesse di capire, al di fuori della mia amata Brera. Sono iniziati gli addii e i nuovi incontri di sensibilità più affini alla mia, oltre alle prime esplorazioni di gioventù, mosse dalla voglia di incontrare i “grandi”: Yves Klein nella sua meravigliosa retrospettiva al Centre Pompidou; Louise Bourgeois alla Tate Modern, Documenta e Münster per la prima volta nel 2007; le Biennali di Venezia e di Berlino, l’Olanda e i suoi musei, e ovviamente lei, New York.

Eppure non credo di aver mai pensato all’arte nell’accezione di viaggio, ma piuttosto come a un territorio da esplorare; una città-labirinto situazionista dove bisogna approdare e imparare a orientarsi a proprio modo, sapersi adattare a lingue sconosciute, a modi di vivere e sentire diversi dai propri, a visioni che non sono la tua ma che, come per incantesimo, non entrano in collisione con te. Anzi, si aprono dialoghi, ci si confronta. È per raggiungere questa città magica, invece, che bisogna intraprendere il viaggio. A ognuno la decisione di scegliere con quale mezzo.

Biografia

MATTEO BERGAMINI | Classe 1984, Direttore Responsabile Exibart, critico d’arte e curatore. Collabora con La Repubblica Magazine. Nel 2010-2011 ha lavorato per Confine Art Magazine come caporedattore. Negli stessi anni ha lavorato per Juliet Art Magazine, Kritika e DDN Design Diffusion News. Da aprile 2014 è giornalista associato all’Ordine Nazionale dei Giornalisti, Roma, e membro dell’AICA – International Association of Art Critics. Ha partecipato come relatore a lezioni e conferenze (Marble Weeks, Carrara; NABA, Milano; Brera Academy of Fine Arts, Milano; Museo Poldi Pezzoli, Milano, tra gli altri) . Tra le ultime mostre curate “BienNoLo”, Milano, Ex Spazio Cova, 2019; “Marcella Vanzo. Svegliare i vivi, svegliare i morti ”, Venezia, Fondazione Berengo, 2019; “Aldo Runfola”, Galleria Michela Rizzo, Venezia, 2018; “Luca Gilli. Di / Stanze ”, Milano, Museo Diocesano, 2018.

Intervento di Michael Biasi

«Di colpi di fulmine ne ho avuti diversi, la mia vita è continuamente condizionata dall’arte, solo chi la conosce e la ama può comprendere quanto l’arte possa cambiare e influenzare le scelte e il modo di vivere di una persona!
Allora vi presento un lavoro di Mark Dion, un artista che mi ha recentemente “fulminato”. Ancora non lo conosco personalmente ma sto scoprendo il suo lavoro e ho iniziato un percorso di approfondimento.
Questo lavoro “Alligator Mississippiensis” rappresenta un’immagine, pregna humor noir, del re della palude posto su un accumulo di oggetti kitsch. Mark Dion, con il suo incisivo approccio archeologico, presenta così il più grande rettile del nord America – l’alligatore maschio può infatti raggiungere peso e dimensioni incredibili – restituendo all’opera una certa atmosfera di un museo di storia naturale».

Mark Dion (1961, New Bedford) è un artista concettuale americano che unisce la passione per il collezionismo all’ecologia.
Attraverso la sua ricerca artistica, Dion studia la relazione tra esseri umani e l’ambiente circostante, mettendo in dubbio le tradizionali soluzioni di pensiero e d’insegnamento.

«Mi identifico con la missione del museo, dove si va per acquisire conoscenza attraverso le cose. I musei sono capsule temporali. Incarnano i valori del loro tempo », ha affermato.

Ricreando una sorta di Wunderkammer tipiche del XVI e XVII secolo, l’artista trasforma lo spazio espositivo in una serie di laboratori naturali, magazzini museali  e misteriosi terreni di caccia, e proprio come un ricercatore itinerante, esplora nuovi mondi e affascina per curiosità e paura dell’ignoto.
La sua passione per le collezioni di storia naturale è presente in tutti i suoi lavori. Giocando a fare il collezionista e il curatore dei suoi musei, allestisce armadi e vetrine posizionando creature animali, affiancando spesso raccolte di libri di storia naturale, incisioni e strumenti scientifici. Ironia e umorismo rivestono un significato importante nelle sue opere, che vengono concepite e organizzate con precisione. Le sue installazioni invitano i visitatori ad ammirare la diversità della natura e i metodi della scienza, che sono qui interpretati in forma artistica.
Al fascino per la bellezza e l’abbondanza della natura, Dion mostra parallelamente la sua vulnerabilità affiancando un degrado ambientale e specie in estinzione. L’Alligator Mississippiensis, nella teca di Dion, trova il suo ultimo luogo di riposo su un letto di catrame, materiale che utilizza in molte delle sue installazioni.
E’ un materiale corrosivo e per Dion simboleggia un approccio orientato al profitto e all’eccessivo sfruttamento da parte dell’uomo che ignora gli equilibri ecologici.
L’opera ci viene presentata all’interno di una cassa mobile che fornisce una soluzione elegante e soprattutto efficiente al problema del piedistallo.
Lo scheletro dell’alligatore si trova sopra una comoda pila di gioielli e oggetti che si potrebbero trovare in un mercatino delle pulci.
A un esame più attento tuttavia, si evidenzia la minaccia  di affondare e scomparire in una massa di catrame. Inoltre, l’alligatore di Dion ricorda i numerosi rettili che sono stati “pezzi” speciali nelle collezioni di storia naturale e armadietti di curiosità dal XVI secolo, infatti la loro struttura rievocava una reincarnazioni di draghi mitici, sottolineando il ruolo dell’uomo come conquistatore della natura selvaggia. Basti pensare che durante il periodo coloniale, i collezionisti  dimostravano il loro potere e la loro influenza esibendo un coccodrillo nelle loro collezioni.

L’artista afferma: «Nel diciannovesimo secolo, l’orso polare fu presentato come un mostro spaventoso con artigli affilati. Oggi come una creatura vulnerabile che deve essere protetta».

Nato il 28 agosto 1961 a New Bedford, Mark Dion, ha continuato a studiare arte all’Università di Hartford nel Connecticut. Il lavoro di Dion si trova nelle collezioni del Museum of Modern Art di New York, della Tate Gallery di Londra, del Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, del Centre Pompidou di Parigi e del Seattle Art Museum, tra gli altri. L’artista vive e lavora a New York, NY.

Biografia

MICHAEL BIASI | Figlio di Alberto Biasi e titolare della MAAB Gallery a Padova fondata nel 2009. Nel mese di settembre del 2013 la galleria ha aperto un nuovo spazio espositivo nel quartiere romano della Milano antica. Sin dall’inizio della sua attività, MAAB Gallery ha lavorato con i principali artisti del panorama storico-artistico del XX secolo. L’attività della galleria è focalizzata sulle tendenze artistiche che si sono sviluppate negli anni ’60 e ’70. Al fine di promuovere la conoscenza di questo importante momento della storia dell’arte, MAAB gestisce l’archivio di Alberto Biasi. In tale contesto la galleria organizza mostre temporanee nei propri spazi espositivi e in location esterne, collaborando con le principali istituzioni (fondazioni, gallerie e musei) culturali. Allo stesso tempo l’attenzione per la ricerca dei documenti originali svolge un ruolo importante nell’organizzazione delle mostre e nella pubblicazione dei cataloghi. Accanto a tale filone d’indagine, il programma della galleria è attento alle costanti evoluzioni del linguaggio contemporaneo.

Intervento di Fabio Castelli

«Per dare testimonianza del potere dell’arte e del mio amore – soprattutto per l’incisione prima e la fotografia poi – mi fa piacere accompagnarvi e farvi vedere alcune opere – una breve selezione – che sono entrate negli anni a far parte della mia collezione e che hanno un significato particolare per me. 
Nel video potete vedere, ad esempio, un Hoepfner del 1945 che amo in modo particolare, un Karl Struss del 1920 con una cornice giapponese molto interessante, due fotografie di Renato di Bosso (fotografie di sculture accostate ad una scultura). Poi un’incisione di Albrecht Dürer che ho molto amato, “San Girolamo nella cella” del 1514. Una xilografia di Hiroshige, che mi interessò per il suo approccio ed un sapore liberty. Sempre di stile liberty, un manifesto sull’arte della fotografia che mi ha intrigato particolarmente. Infine un’opera chiave del mio passaggio di interesse dall’incisione alla fotografia, ed è un’opera in cliché-verre di Corot».

Karl Struss (New York 1886 – Santa Monica 1981) è stato un direttore della fotografia e fotografo statunitense. Vinse l’Oscar alla migliore fotografia per il film Aurora di Murnau nel 1929. Collaborò ad esempio a film come Il Grande Dittatore di Chaplin. Prima di giungere al cinema si affermò come uno dei più geniali fotografi newyorkesi. Fu tra i primi direttori della fotografia a mettere da parte il lavoro sulla camera per concentrarsi sull’illuminazione. Fu tra i primi a girare con i negativi pancromatici e dominò con maestria i filtri colore per il bianco e nero, adottati anche per le trasformazioni di Fredric March in Dr. Jekyll and Mr. Hyde.

Renato Di Bosso Scultore (Verona 1905 – 1982) nome d’arte per Renato Righetti. Si accostò alla poetica futurista attraverso la frequentazione di Alfredo Ambrosi conseguentemente lesse Pittura e scultura futuriste di Boccioni. Nel 1931 Renato Di Bosso Scultore, alla presenza di Marinetti, fu tra i fondatori del Gruppo futurista Veronese. Dunque, nel 1933, dopo aver contribuito alla realizzazione di vari Manifesti, partecipò alla I Mostra Nazionale d’ arte futurista di Roma. lo scultore Renato dal bosso Animato da un continuo sperimentalismo realizzò numerose opere sia di aeropittura che di aeroscultura nonostante una lunga pausa seguita agli anni della guerra.

Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 – 1528) è stato un pittore, incisore, matematico e trattatista tedesco.  Figlio di un ungherese, viene considerato il massimo esponente della pittura tedesca rinascimentale. “San Girolamo nella cella” è la terza incisione della famosa serie Tre “Incisioni di officina” su rame. San Girolamo nella cella è una rappresentazione allegorica di uno stile di vita contemplativo. Il vecchio è seduto al banco della musica nella profondità della cella, in primo piano un leone è allungato. La luce penetra attraverso le finestre in questa dimora tranquilla e accogliente, tuttavia i simboli che ricordano la morte invadono qui: un teschio e una clessidra. San Girolamo nella cella è un’incisione a bulino (25,9×20,1 cm), del 1514 e una delle migliori copie esistenti è conservata nella Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe.

Hiroshige (Edo, 1797 – 1858) è stato un incisore e pittore giapponese. Assieme a Hokusai è considerato uno tra i principali paesaggisti giapponesi dell’Ottocento e fra i più celebri rappresentanti della corrente artistica Ukiyo-e. La produzione artistica di Hiroshige annovera diversi generi, tra cui stampe di attori, guerrieri, cortigiane, ma l’oggetto principale della sua arte fu la natura nelle sue molteplici espressioni. La contemplazione della natura e la successiva rappresentazione in chiave morfologicamente armonica, è ciò che distingue Hiroshige dagli altri pittori-incisori del suo tempo. Nell’arco di tutta la sua vita Hiroshige creò circa 400 incisioni. La serie più famosa di Hiroshige è “Le 100 vedute famose di Edo”. Hiroshige ebbe straordinaria influenza sulla pittura europea di fine Ottocento. Principalmente tale influenza si manifestò sull’impressionismo e sul post-impressionismo.

Jean Baptiste Camille Corot (Parigi, 1796–1875) e il cliché-verre. Intorno alla metà dell’Ottocento comparve una tecnica di riproduzione seriale che associava l’antica e paziente attività dell’artista incisore all’innovazione portata dall’invenzione della fotografia. Il cliché-verre, così si chiama questo  procedimento ormai in gran parte dimenticato, si basava pur sempre sul totale controllo esecutivo operato dall’artista, così come accadeva nelle antiche tecniche incisorie, con in più la novità di poter sfruttare gli effetti della luce su una carta sensibile. Non si tratta, come avviene in pratica spesso oggi, di eseguire un generico disegno che viene poi in qualche modo riprodotto tipograficamente, ma di eseguire una vera e propria incisione su vetro, per sfruttare poi l’effetto della luce sulla carta sensibile. L’effetto finale è molto simile a quello dell’acquaforte, con la possibilità però di creare cromatismi particolari. Non furono molti gli artisti che si cimentarono col cliché-verre, ma tutti importanti. Millet, Rousseau, Delacroix, Daubigny.  Ma chi si innamorò letteralmente  di questo procedimento fu Jean Baptiste Camille Corot. Il grande pittore apprese la tecnica intorno al 1853, e in poco più di venti anni realizzò 66 lastre di qualità splendida. 

Biografia

FABIO CASTELLI | Imprenditore del settore siderurgico e Information Technology sino all’anno 2000. Collezionista d’arte e di fotografia. Negli anni Ottanta socio della Galleria d’Arte Daverio di Milano. Dal 2001 consulente della Direzione Centrale e del settore Musei e Mostre del Comune di Milano. Organizzatore ed esperto per il settore fotografia delle aste d’arte contemporanea per la Casa d’Aste Farsetti. Dal 2003 al 2008 promotore e direttore artistico di Fotografia Italiana, galleria d’arte specializzata nella fotografia italiana e direttore responsabile della pubblicazione “Pagine di Fotografia Italiana”. Dal 2011 ideatore e direttore artistico di MIA Photo Fair, la fiera d’arte internazionale dedicata alla fotografia e all’immagine in movimento in Italia. Grazie alla profonda conoscenza del mercato dell’arte coniugata con una pluriennale competenza ed esperienza nella gestione aziendale, crea nel 2017 MIA Photo Fair Projects, che è oggi il partner privilegiato per la definizione e realizzazione di esclusivi progetti di consulenza sia per lo sviluppo di attività aziendali rivolte al mondo dell’arte sia per lo sviluppo di strategie di comunicazione aziendale che utilizzano il linguaggio della fotografia d’arte.

Intervento di Marco Maria Zanin

«Ciò che mi riporta fortemente al periodo che stiamo vivendo non è un’opera sola ma un corpus, molto importante anche per la costruzione del mio linguaggio artistico: le fotografie di Brancusi.
Brancusi com’è noto era uno scultore, ma è stato anche un eccezionale fotografo. Costruisce lui stesso la propria camera oscura all’interno del suo atelier, chiede qualche consiglio tecnico a Man Ray e poi entra in un interessante processo in cui usa la fotografia sia per sé, per visualizzare l’opera scultorea nella sua trasformazione, sia per lo spettatore, facendo entrare uno sguardo esterno come voyeur, ad osservare l’atelier e lo stesso processo creativo.
Nelle fotografie, Brancusi fa esistere le sue sculture in un altro spazio, costringendoci a vedere le sue sculture come lui avrebbe voluto. Mi riportano a questo tempo sfidante che stiamo vivendo perché lo trovo un meraviglioso esercizio di presenza.

Osservare lo spazio in cui viviamo mettendoci in contatto con la pulsazione della luce che disegna e trasforma istante per istante ciò che appartiene al nostro spazio intimo e quotidiano. Osservare ciò che emerge dal nostro fare, o il paesaggio che si crea dal casuale spostamento degli oggetti che ci circondano. Accorgersi di come la luce che entra da una finestra può trasformare un oggetto qualsiasi in un oggetto sacro.
Questo, ma anche un rapporto con il tempo capace di non aggrapparsi a niente, di non forzare, non accelerare, semplicemente stare, osservare, con la pazienza e la fiducia che qualcosa di bello e potente accadrà, o anzi, sta già accadendo.».

Artista francese di origini rumene, Constantin Brancusi (1876–1957) è conosciuto soprattutto per le sue particolari sculture astratte in cui ricerca la semplificazione della forma al fine di sprigionare la tensione e l’energia della materia.
La maturazione delle sue idee e del suo stile così personale avviene in un momento cruciale della storia dell’arte. Brancusi vive a Parigi, crocevia di innumerevoli apporti culturali del tempo che gli permetteranno di entrare in contatto con personalità fondamentali per la sua ricerca artistica, come Amedeo Modigliani (1884-1920), Fernand Leger (1881-1955), Marcel Duchamp (1887-1968) e Man Ray (1890-1976).

Parallelamente alla scultura, Brancusi fu particolarmente attivo anche nel campo della fotografia, passione nata nel 1927, quando incontrò Man Ray a Parigi. Mentre l’artista americano stava creando il suo studio fotografico, aiutò Brancusi ad acquistare le attrezzature necessarie per approntare una camera oscura nel suo atelier, dove avrebbe perfezionato le sue tecniche fotografiche. E’ così grazie a Man Ray che Brancusi imparò a scattare, sviluppare e stampare autonomamente le proprie fotografie.
Il risultato di questa istruzione è evidente nella rivista “Little Review” dell’autunno 1921, che riproduce una serie di fotografie di Brancusi che rientrano tra gli scatti più importanti del periodo.

Le opere fotografiche Brancusiane rappresentano immagini del suo studio e delle sculture, non semplicemente come documentazione dell’opera stessa, ma piuttosto un modo alternativo per percepire le proprie sculture in relazione all’ambiente circostante al cambio di luce su di esse. Le sue fotografie sono una parte fondamentale della carriera artistica di Brancusi perché permettono di guidare e migliorare l’esperienza dello spettatore nella comprensione delle sue opere tridimensionali, ma anche di trasformarle completamente in nuove opere d’arte. Posizionando e riposizionando le sculture nel suo studio, Brancusi crea composizioni complesse, che esprimono una visione fotografica unica che va decisamente oltre la semplice documentazione, e stabilisce fermamente Brancusi come uno dei più straordinari creatori di immagini nella storia della fotografia.

Biografia

MARCO MARIA ZANIN | Marco Maria Zanin nasce a Padova nel 1983.

Si laurea prima in Lettere e Filosofia e poi in Relazioni Internazionali, ottenendo un master in Psicologia. Sviluppa contemporaneamente l’attività artistica, e compie numerosi soggiorni in diverse parti del mondo, mettendo in pratica quell’esercizio di “dislocamento” fondamentale per l’analisi critica dei contesti sociali, e per alimentare la sua ricerca tesa a individuare gli spazi comuni della comunità umana. Mito e archetipo come matrici sommerse dei comportamenti contemporanei sono il centro della sua indagine, che si snoda sull’osservazione della relazione tra l’uomo, il territorio e il tempo. Vive e lavora tra Padova e San Paolo del Brasile.

Intervento di Alberta Pane

Ho pensato all’incontro con Marie Denis e l’opera Memento Mori, anche se potrei raccontare tantissime storie che mi hanno colpito e che hanno segnato e continuano a segnare la mia vita quotidianamente grazie a tutti gli artisti della galleria che riempiono le mie giornate con la loro arte ed il loro universo.
L’incontro con Marie Denise con la sua opera è avvenuto nel 2009 ed è particolarmente importante per me perché corrisponde ai primi anni dell’attività di gallerista a Parigi; ho realizzato la prima mostra di Marie Denis all’interno degli spazi, all’epoca, situati in rue Saint-Claude nel Marais.

Ho conosciuto Marie Denis grazie ad un nostro amico comune e curatore Adrien Pasternak che mi ha invitato alla Manufacture de Sévres, istituzione francese, dove Marie ha realizzato una performance con del polline durante la quale portava degli indimenticabili collant rossi.
Subito dopo la performance si è avvicinata a me chiedendomi una sigaretta che non avevo, questo è stato il mio primo incontro con l’opera e con Marie Denis. Ho capito subito che era una persona assolutamente straordinaria fuori dal comune, dalla forte personalità e qualche giorno dopo sono andata a visitare il suo atelier e ad incontrare veramente il suo universo.

Mi ricordo benissimo la grande emozione che ha suscitato in me l’opera Memento Mori, una maschera vegetale realizzata con una pianta sempreverde imprigionata tra due vetri, un’opera che voleva sfidare l’inesorabile passare del tempo ma che allo stesso momento ricorda l’ineluttabilità e la fragilità del destino dell’uomo. Una vanitas vegetale. Un’opera bellissima, forte, ma anche ricca di speranza e della quale mi sono innamorata subito ed ho iniziato così la mia strada con Marie Denis.
Inutile dire come mi sembra contemporanea oggi quest’opera, il sistema dell’arte contemporaneo abitato da una frenesia che sembrava inarrestabile fino a poche settimane fa, tra viaggi e spostamenti incessanti causati dalla globalizzazione dell’arte, oggi, invece, si ritrova immobile e deve fare i conti con un virus, un monito pesantissimo, che ci ricorda la nostra fragile condizione, il valore delle cose essenziali ed il contributo che l’arte può darci all’interno delle nostre vite durante il loro trascorrere.

Marie Denis, artista francese nata nel 1972 in Ardèche è una fata della materia vegetale ma non solo, da sempre è interessata alla sperimentazione, alla metamorfosi e alla rielaborazione dell’universo della natura e dalle potenzialità che i materiali metallici e le nuove tecniche possono conferire alla sua opera. L’artista reinterpreta e poeticizza la natura, talvolta patinata, mineralizzata, scannerizzata, assemblata o intrecciata. Un mondo vegetale quello di Marie Denis che, esistenzializzato, trova nuova linfa nell’interazione con lo spazio in cui viene accolto e con lo spettatore che ne fruisce.

Vorrei concludere con alcune parole dell’artista: 

«Da bambina creavo le vetrine nel negozio di lingerie della mia cara nonna e correvo nelle campagne. Da allora non ho mai smesso di accogliere la natura all’interno di spazi per reinventare la stessa e dare vita a opere che si aprano alla sensibilità dello spettatore. Da più di vent’anni porto avanti questa ricerca sul mondo vegetale, tra sperimentazioni e metamorfosi, in cui saggio formati e materiali. Il mio lavoro assume forme fotografiche, stampate, scultoree, mineralizzate da patine, o catturate tra due vetri: filtro e rivisito continuamente le tecniche che fecondano le mie forme. Attraverso queste esplorazioni il mio punto di vista soggettivo sulla natura si manifesta, rendendo poetici materia e materiali. Le mie forme sono scure, sotto il segno di Eros e Thanatos. Cerco di riparare “il non permanente” che come la sabbia scivola tra le dita. La natura è la mia materia vivente di ricerca e di creazione. L’artista è un “sismografo”, cattura e trasforma ciò che l’epoca ha prodotto senza distinzioni. Filtra e distingue. È un acrobata della rivendicazione nel senso di nomadismo del pensiero e delle forme. Al di là della sua stessa vita, l’artista “al di fuori di sé stesso” emette forme che civilizzano la nostra vita». – Marie Denis.

Biografia

ALBERTA PANE | Laureata presso l’Università IUAV di Venezia, ha da sempre lavorato nel mondo dell’arte. Durante un ventennio trascorso a Parigi tra musei e gallerie d’arte ha rivestito il ruolo di direttrice della Guida Mayer (catalogo di vendite all’asta) e dal 2008, anno di apertura della sua Galerie Alberta Pane nel Marais, è gallerista con l’intento di diffondere a livello internazionale il lavoro degli artisti che sostiene. Con la galleria parigina è parte del Comité Professionnel des Galeries d’Art e di Paris Gallery Map. Nel maggio 2017 apre la sede veneziana della galleria, in uno spazio di 350m². Nella sua città natale, Alberta Pane è anche una delle principali promotrici di Venice Galleries View, un progetto volto a creare una rete di collaborazioni tra gallerie d’arte contemporanea per far conoscere e incrementare la proposta culturale di ricerca veneziana. La gallerista lavora a livello internazionale con artisti le cui opere sono state esposte nei più importanti epicentri della scena artistica contemporanea e in istituzioni culturali quali il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, il Centre Pompidou, La Monnaie de Paris, Documenta, la Biennale di Venezia, Manifesta, la Biennale di Istanbul.

Intervento di Umberto Zagarese

«Un’opera che mi ha particolarmente colpito di recente è “Tu o io” di Maria Lassnig (1919-2014) del 2005. Si tratta di un dipinto a olio piuttosto inquietante, come del resto la maggior parte dei lavori di questa artista austriaca, nata a Carinzia, nel quale una donna nuda, piuttosto deforme, punta una pistola contro l’osservatore e al tempo stesso ne punta un’altra alla sua tempia. Il dipinto non è certo piacevole né per il soggetto né per il messaggio che comunica, tuttavia contiene una forza pazzesca, direi quasi brutale, di come talvolta si è costretti a sopravvivere per non morire».

Maria Lassnig è considerata tra le pittrici europee più significative e introspettive, conosciuta per i suoi dipinti Körpergefühl sulla “consapevolezza corporea”, attraverso cui ricerca una consapevolezza del corpo.
Nonostante manifestasse una particolare propensione al disegno sin dalla tenera età, è grazie al suggerimento di un’amica d’infanzia che decise di intraprendere la carriera nelle Arti. Nel 1947, in piena seconda guerra mondiale, apre uno studio a Klagenfurt, un luogo d’incontro per pittori e poeti, dove incontrò l’artista Arnulf Rainer (1929), successivamente suo amante, che l’avvicinò all’Informale. Da Klagenfurt, Lassnig si trasferì in un primo tempo a Vienna, poi Parigi, infine New York; viaggi che le permisero di assorbire le influenze cubiste e informali che la portarono a sperimentare, già agli inizi del’49, disegni introspettivi del proprio corpo.
Leitmotiv costante di molte sue opere: il corpo, rappresentato nelle sembianze umane o animali, raffigura situazioni di malessere sociale dovute all’alienazione urbana e al materialismo.
Molti dei suoi autoritratti raffigurano corpi con parti mancanti o uniti tutt’uno con altri oggetti appartenenti alla vita di tutti i giorni. Con queste manipolazioni del corpo, spesso volutamente disturbanti, Lassnig richiama l’attenzione alla sua figura di donna, che assume sembianze inquietanti e robotiche.
Nella sua pittura, il mondo antropomorfo sì incontra con quello zoomorfo, in una simbiosi fra uomo e natura che risulta essere contemporaneamente drammatica e affascinante. La ricerca artistica della Lassnig rappresenta una sorta di forma di autoanalisi, cui l’artista, dalla profonda sensibilità, si sottoponeva costantemente.
Oltre all’elemento corporeo, sono frequenti anche le rappresentazioni di armi da fuoco, come nel dipinto Du oder ich (Tu o io) tra i suoi più conosciuti. La scelta di inserirle non è un tentativo di violenza verso gli altri in quanto potenziali strumenti di omicidio, bensì sintomo di un dolore interiore che affligge l’artista stessa. Nonostante la minaccia indirizzata al pubblico il soggetto del dipinto vuole essere ascoltato e salvato da una condizione di disagio.
Nonostante la pittura sia espressa tramite colori delicati e luminosi, aleggia un latente senso di morte nei suoi lavori. Le sue opere possiedono la tensione latente del conflitto fra opposti, attraggono e respingono l’osservatore, riecheggiano i suoi drammi interiori e allo stesso tempo raccontano quelli di intere generazioni.

Continua Zagarese: «L’arte è un mezzo di comunicazione che non deve esprimere solo bellezza estetica ma rappresentare anche la dura realtà che le persone non vorrebbero vedere ma che esiste. Il tema della sopravvivenza oggi è attualissimo e nessuno di noi avrebbe mai pensato di vivere una pandemia in un mondo dove si parla solo di progresso e di crescita del benessere. Eppure questa realtà la stiamo tutti vivendo molto drammaticamente in questi giorni!».

Una carriera artistica riconosciuta anche sul piano sociale, rivestendo il ruolo di pioniera del movimento femminista nelle arti visive, un risultato che è stato consacrato quasi al termine della sua vita, nel 2013, con l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera dalla Biennale di Venezia.
Nel 2014, anno della sua scomparsa, il MoMA di New York dedicò a Maria Lassnig una grande retrospettiva conferendole così un riconoscimento artistico universale; nel 2016 è stata la volta della Tate Modern di Londra celebrare l’artista con una mostra.

Biografia

UMBERTO ZAGARESE | Commercialista e collezionista. Figlio di collezionisti, è attivo nell’aggregazione e nel coordinamento di collezionisti veneti.

Intervento di Alessia Zorloni

Ci sono stati almeno due eventi che hanno segnato qualcosa nel mio percorso professionale e personale. Il primo, nel 2003 durante il Capodanno, mi trovavo a New York, e andando a visitare i grandi musei, il Museum of Modern Art (MoMA), il Whitney Museum e il Guggenheim, dove vidi una bellissima retrospettiva di James Rosenquist (1933-2017), pittore americano considerato uno dei pionieri della Pop Art insieme ad Andy Warhol e Roy Lichtenstein. Fui colpita da queste grandi opere, soprattutto per la loro potenza espressiva, lavori maestosi che non avevo mai visto di persona.  Questa grandezza e questa energia, mi hanno veramente toccato. 
Nelle sue opere policrome, variegate e vibranti, Rosenquist utilizza immagini e oggetti presi in prestito dalla cultura popolare, dalla vita quotidiana e dai mass media. Trae spunto da libri di fumetti, prodotti di uso comune e soprattutto pubblicità. Ma affronta anche temi socio-politici. La sua ricerca è segnata da un continua sperimentazione tecnica. Come ha affermato in un’intervista nel 2007: «Non sono come Andy Warhol. Lui ha fatto bottiglie di Coca Cola e panni Brillo. Io ho usato immagini generiche senza marchio per fare un nuovo genere di pittura».
In quel periodo, come l’anno precedente, vivevo a Londra. Era il mio periodo di scoperta dell’arte contemporanea, andavo spesso a vedere diversi musei, dove mi piaceva andare da sola, per riflettere e pensare ad altri progetti e stimolare in maniera creativa la nascita di nuove idee e progetti. Mi faceva pensare ad altro questo luogo. Molto spesso i luoghi di cultura sono anche propizi per altre idee, nuove cose da realizzare, stimolano, infatti, la creatività entrando in contatto con essa.

Il secondo evento che ha segnato il mio percorso è accaduto qualche anno dopo in occasione della fiera di MIA Art, dove vidi il Direttore di un museo parlare.Quando lo sentii, dissi dentro di me: “Vorrei lavorare con una persona così e conoscere una realtà come quella in cui lavora”. E così accadde. Poco dopo, mi trasferii a Vienna, andai a lavorare alla Kunsthalle, e lì iniziò il mio percorso di conoscenza e approfondimento dell’arte contemporanea anche a livello professionale. Questo periodo critico di quarantena, non mi è assolutamente nuovo.
Molto spesso, quando ero a Vienna, ero solita stare a casa per tanti giorni a lavorare, a scrivere, a fare ricerca.   Ero anche molto sola, ma ciò non mi pesava perché avevo una grande motivazione che derivava dal raggiungere i miei obiettivi ma soprattutto dall’approfondire e studiare qualcosa che mi piaceva. Questo è un messaggio che dobbiamo cogliere oggi: approfittiamo di questo momento di chiusura per approfondire gli artisti, l’arte, altre forme artistiche guardano spettacoli alla TV, film, ascoltando musica, scoprendone di nuova. Sfruttiamo questo momento per essere più a contatto con noi stessi, l’arte ci permette di conoscerci meglio ed è propizia per un dialogo interiore.

Biografia

ALESSIA ZORLONI | E’ docente alla IULM di teorie e forme del mercato dell’arte. Ha svolto attività di consulenza e ricerca sulle tematiche della gestione museale presso società di consulenza e musei, tra cui Boston Consulting Group, Kunsthalle Wien, Tate Gallery, Guggenheim Museum e Smithsonian Institution. Ha pubblicato le sue ricerche su riviste scientifiche ottenendo riconoscimenti internazionali, tra cui la Smithsonian Fellowship in Museum Practice, la Marie Curie Intra-European Fellowship e un grant triennale dall’Austrian Science Fund (FWF). È autrice dei libri Economia e gestione dei musei (Aracne), L’economia dell’arte contemporanea (Franco Angeli) e The Economics of Contemporary Art. Markets, Strategies and Stardom (Springer). A gennaio 2016 pubblicherà con Springer un libro sulla gestione delle collezioni private intitolato Art Wealth Management. Managing of Private Collections.