Trastevere. Tra antico e contemporaneo

Una piccola chiesa di quartiere in una zona poco conosciuta di Trastevere che affascina un gallerista newyorkese, tanto da deciderlo a rilevarla per aprirci uno spazio espositivo.
Questa non è la trama di un film, ma una vera storia d’amore nata tra la Chiesetta di Sant’Andrea de Scaphis a Roma e l’artista prima, gallerista poi Gavin Brown.
Un colpo di fulmine scoppiato da oltre un decennio. Brown, recatosi a Roma in occasione di un’altra avventura artistica, si ritrovò nelle prossimità di questo gioiellino, dalle sembianze un po’ rinascimentali e un po’ settecentesche, e ne rimase totalmente innamorato.

«Nelle vicinanze c’era questo ristorante in cui andiamo ancora e mi sedevo fuori a guardare questo edificio che era all’angolo. È sempre stato l’edificio più suggestivo e magnetico, così semplice, piccolo e ovviamente vuoto» ha dichiarato Brown.

Con una storia da milleduecento anni – la prima pietra risale al secolo VIII – la  chiesetta di Sant’Andrea fu sconsacrata per diverse vicissitudini negli anni ’40 e rimase nel totale abbandono fino al 2015, diventando, grazie a Brown, uno spazio consacrato all’arte contemporanea.

Come afferma in un’intervista: «Non avrei aperto a Roma se non avessi trovato questo spazio, per quanto io adori assolutamente Roma. Non è che stavo cercando di aprire un posto in Europa. Stavo cercando di aprire questo posto in questo edificio».

A seconda di come si voglia contare, la chiesetta di Sant’Andrea è il terzo, il quarto o quinto spazio espositivo inaugurato da Brown. La sua carriera come gallerista inizia negli anni ’90 fondando Gavin Brown Entreprises, uno spazio espositivo nel quartiere SoHo di New York. Nel 1999, decide di acquistare Passerby, un bar situato vicino all’allora galleria nel Meatpacking District, famoso per la sua pista da ballo realizzata dall’artista Piotr Uklanski. Nel 2012 stipula un contratto a Los Angeles e apre Mission356, spazio gestito dalla pittrice Laura Owens, che lo stesso Brown rappresentava.

In Europa, in particolare in Italia, la chiesetta di Sant’Andrea non è l’unica galleria “romana” per Brown. Agli inizi del nuovo millennio, esattamente nel 2003, aveva inaugurato RomaRomaRoma, insieme ad altri amici galleristi Franco Noero e Toby Webster, rispettivamente proprietari di gallerie a Torino e Glasgow. Il progetto si concluse nel giro di un paio di anni per impegni collettivi nelle rispettive gallerie.
Brown ama lavorare e sperimentare progetti artistici anticonvenzionali. Il suo intento fin dall’avvio di questa nuova avventura con la Chiesetta di Sant’Andrea era quello di creare un hub artistico in cui poter accogliere esposizioni, performance ed eventi artistici di diversa natura.

Un progetto nato dall’amore per la città eterna nel quale si intrecciano passato e presente e si instaurano relazioni speciali tra gli artisti e lo spazio della chiesetta di Sant’Andrea.
Brown non è il primo gallerista internazionale ad aprire una sede nella città capitolina. Nel dicembre 2007, Larry Gagosian inaugurò Gagosian Gallery la sua settima galleria in un ex edificio bancario vicino a Piazza di Spagna. E a Trastevere, lungo la curva del fiume, negli anni hanno aperto i battenti Frutta Gallery dello scozzese James Gardner e lo spazio Galerie Emanuel Layr dell’austriaco Emanuel Layr.

In ulteriori occasioni, il quartiere trasteverino si sta lentamente confermando come uno dei quartieri di maggiore interesse artistico per galleristi internazionali e non, offrendoci una nuova proposta culturale focalizzata sulla scena contemporanea.

Un museo nel sottosuolo. Le stazioni dell’arte a Napoli

A Napoli, l’arte contemporanea viaggia in metropolitana all’interno e subito fuori dalle sue fermate. Tipiche zone di passaggio, sono oggi luoghi per vivere e “assaporare” l’arte contemporanea in ogni momento della giornata.
Le Stazioni dell’Arte sono un vero e proprio museo decentrato, uno stupefacente progetto urbanistico promosso dall’amministrazione comunale che rende i luoghi della mobilità unici ed artistici. Un’esperienza culturale che vale di più del prezzo di una corsa, e tocca 15 fermate, ognuna curata nei minimi dettagli da architetti e artisti di fama internazionale.
L’itinerario completo permette di ammirare circa duecento opere di grandi artisti tra Arte Povera e Concettuale fino ai nostri giorni. La più nota è quella di Toledo, inaugurata nel 2012 e nominata dal quotidiano britannico Daily Telegraph come la stazione più suggestiva tra 22 stazioni di grandi metropolitane europee.

Ciò che affascina di questo spettacolare progetto architettonico, che porta la firma dell’architetto catalano Oscar Tusquets Blanca, è la sua superficie musiva con tessere Bisazza.
Un’atmosfera marina ricreata nelle sue diverse sfaccettature, dal nero della terra, all’ocra del tufo e della pietra fino al celeste della falda e all’azzurro del mare.
Una spettacolare discesa negli “abissi” della stazione all’interno del grande “Crater de luz”, che attraversa tutti i livelli della stazione corredato da luci a led azzurre che si mescolano alla luce filtrata dall’esterno.
Ad accompagnare i passanti lungo le scale mobili lettere in argento specchiante su grandi pannelli neri realizzate da Lawrence Weiner, che ha fatto del significato etimologico il suo mezzo di espressione. Weiner è tra gli artisti che negli anni ’70 ha sancito il predominio dell’idea” e del “concetto” rispetto alla realizzazione dell’opera stessa che trova la sua interpretazione esclusivamente attraverso l’osservatore.
La frase epigrammatica che si legge è “Molten copper poured on the rim of the bay of Naples. / Rame fuso colato sulle rive del golfo di Napoli.”

Come non citare la fermata Dante di Gae Aulenti con l’installazione di Joseph Kosuth, uno dei pionieri dell’Arte Concettuale e installativa che dagli ’60 si dedica alla realizzazione di opere sull’uso del linguaggio come definizione dell’oggetto artistico. Qui, una citazione sulla percezione visiva tratta dal Convivio di Dante Alighieri riprodotta con tubi al neon.
Sempre all’interno della fermata Dante, troviamo le opere dei grandi artisti dell’Arte Povera. Tra queste un’installazione di Jannis Kounellis, strisce di ferro simili a binari sono fissate ad una parete in cui sono incastrati un soprabito, un cappello, dei trenini giocattoli e tante paia di scarpe.
Molti lo conoscono per i suoi specchi, capaci di trasformare in creatore il mero fruitore dell’opera d’arte, invitandolo ad entrare nel processo creativo.  Qui, all’interno della fermata, frammenti di specchio di Michelangelo Pistoletto sono tenuti insieme da linee rosse e nere che richiamano il profilo del Mediterraneo. Per la metro Garibaldi Pistoletto realizza Stazione, una serie di pannelli in acciaio specchiante dove sono serigrafate immagini di viaggiatori e passanti a grandezza naturale.

Arriviamo alla stazione Vanvitelli. Al suo interno è possibile ammirare due delle ultime opere realizzate da Mario Merz e le stelle di Gilberto Zorio.
La grande spirale al neon azzurro installata sulla volta da Merz. Si tratta della rappresentazione geometrica della serie di Fibonacci che prosegue in un’altra installazione sul fondo della metro rappresentante animali preistorici. A seguire, le grandi stelle in acciaio realizzate da Zorio appese alle pareti del piano intermedio. La stella, immagine di energia e di tensioni contrastanti, ricorre spesso nell’estetica di Zorio, solitamente accompagnata dal giavellotto, oggetto che richiama le origini storiche dell’uomo e la sua capacità di manipolazione della natura.

Ultima fermata Materdei con le coloratissime pareti di Sol LeWitt, della serie Wall drawings, dipinti geometrici dalle accese cromie, realizzati sulle pareti nella ricerca di una totale integrazione tra arte e architettura. La stessa gamma di colori viene utilizzata per Splotches, un’installazione realizzata per il fondo del corridoio attraverso l’uso del software, sulla base di un set di istruzioni fornito dall’artista.

Il nostro percorso termina qui, ma l’itinerario artistico nel sottosuolo napoletano continua in numerosi altri luoghi da vivere e scoprire.

Lo straordinario progetto delle Stazioni dell’Arte rappresenta un importante processo di riqualificazione del tessuto urbano che ha saputo trasformare posti spogli in luoghi accattivanti, offrendo allo stesso tempo la possibilità di vivere l’arte attraverso un percorso espositivo aperto, per una fruizione nuova e dinamica dell’opera d’arte.

Artigianato e design per un progetto di rigenerazione urbana

Per anni è stato un luogo popolato da ombre e fantasmi di un passato che l’ha trasformata da luogo di culto a lanificio, per poi lasciarla all’abbandono più totale. Parliamo della Chiesa Santa Caterina a Formiello a Napoli, sita nel cuore della città, raro esempio di rinascimento napoletano e di archeologia industriale.
Costruita a partire del 1515, nelle prossimità del Formale reale, l’acquedotto della città – da qui “a Formiello”, ossia “presso i canali – la Chiesa fu dimora di diversi ceti religiosi per poi divenire il Lanificio dell’epoca borbonica, in seguito soppressione dell’ordine dei domenicani voluta da Gioacchino Murat.

La trasformazioni in un monumento di archeologia industriale comportarono varie alterazioni della struttura originaria. Tra queste spicca l’imponente capriata lignea centrale, esempio virtuoso del “programma di industrializzazione” dell’epoca. L’intero complesso monumentale fallì dopo l’Unità d’Italia portando lo stabile a un lento e inarrestabile degrado. Gli spazi furono adattati ad ospitare una falegnameria e un saponificio prima, fino a divenire un vero e proprio deposito di rimesse per automobili.
Oggi l’edificio è di proprietà della Fondazione Made in Cloister, che acquisì lo stabile nel 2012, attraverso un’operazione culturale attuata per riqualificare l’area di Porta Capuana.
Quello che un tempo era uno dei luoghi più affascinanti e monumentali della Napoli religiosa si conserva oggi attraverso un attivo programma di eventi culturali di artisti internazionali e maestri artigiani napoletani.
Alla guida di questo coraggioso progetto Davide de Blasio e Rosa Alba Impronta, imprenditori illuminati che hanno saputo salvare dalla rovina un monumento storico, riportarlo agli antichi splendori e restituirlo alla comunità come spazio espositivo per l’arte contemporanea. Il recupero, in primo tempo architettonico, poi creativo e sociale, attuato da Made in Cloister è il tentativo di introdurre nel centro martoriato di Napoli uno spiraglio culturale per rilanciare le tradizioni artigianali, rinnovate in chiave contemporanea.

L’idea del “fare” e di “creare” è sempre stata presente in questo luogo.
E’ qui che nel ‘500 si coltivano le erbe per la farmacia della Chiesa, è negli spazi del chiostro che s’installa la fabbrica di lana e tessuti per l’esercito nell’800, ed è qui che oggi esistono residenze di sperimentazione artistica che spaziano dalla musica alla stampa 3D, dall’architettura all’inclusione sociale e all’arte.

Oltre alla valorizzazione e al recupero del fare artigianale attraverso collaborazioni e nuove committenze, la Fondazione Made in Cloister si pone tra gli obiettivi il recupero del tessuto urbano della zona di Porta Capuana, un’area ricca di storia e tradizioni che ad oggi risulta socialmente complessa. Da questo presupposto sono nate collaborazioni con l’Accademia di Belle Arti di Napoli e artisti internazionali nell’ottica di intercettare un pubblico più vasto e di puntare i riflettori su quest’area dimenticata.

Lo spazio espositivo fu inaugurato ufficialmente nel maggio 2016, con la personale di Laurie Anderson, The Withness of the Body. Da allora il Chiostro ospita progetti site-specific in grado di dialogare antico e contemporaneo, passato e presente, mettendo in mostra materiali e linguaggi espressivi frutto di quella contaminazione stilistica di cui la Fondazione Made in Cloister si fa promotrice.

Fino al 30 aprile, è possibile visitare la personale di Nicola Samorì Black Square, artista italiano noto per i suoi dipinti rinascimentali strappati ed erosi dal passare del tempo.
Per il Chiostro Samorì realizza Drummer, un’imponente scultura di 5 metri ricoperta di lapilli vulcanici appoggiata su una sorta di tappeto lavico composto da 1300 minisculture ispirate alle teste esposte al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il MANN. I riferimenti alla città partenopea sono visibili anche nel basamento della grande scultura che richiama un candelabro barocco di obelischi diffusi sul territorio napoletano.
La ricerca dei materiali utilizzati da Samorì permettono un chiaro dialogo tra antico e contemporaneo, attraverso un’arte che possa risalire alle origini attraverso una veste nuova e rigenerata.
L’arte di Samorì scava nel passato, nell’intimo umano, e lo fa attraverso una serie di dipinti che svelano la più intima e segreta anima di quella ferita lacerata della figura rappresentata.

Il compleanno di Galleria Continua

Siamo in un periodo storico nel quale la società presta molta attenzione alle classifiche, di ogni genere. Dalle 10 spiagge più belle al mondo, ai 100 film più belli di tutti i tempi, ai primi 30 piatti che gli europei preferisco cucinare, e così via.
Anche il mondo dell’arte ha le sue classifiche, ma quella che ogni anno tutti i ‘potenti’ aspettano è la Power 100 di Art Review, rivista americana specializzata. Giunto alla sua diciottesima edizione, la classifica presenta le 100 figure più influenti nel mondo dell’arte contemporanea internazionale degli ultimi 12 mesi, secondo il giudizio di 30 artisti, curatori e critici a livello globale. Per il 2019 al primo posto troviamo Glenn D. Lowry, direttore del MoMA di New York, per aver rivoluzionato il modello del museo tradizionale. Pochissimi gli italiani, e tra questi i tre soci fondatori di Galleria Continua: Mario Cristiani, Maurizio Rigillo, Lorenzo Fiaschi. 

E’ un riconoscimento importante per un progetto nato con l’obiettivo di portare l’arte contemporanea fuori dai soliti circuiti, prima come associazione per poi diventare galleria di rilevanza internazionale.
E questa galleria nel 2020 compie 30 anni di vita. 

La peculiarità e la forza della “galleria” stanno nella identità legata al territorio, in maniera impegnata culturalmente e socialmente da un lato, ma allo stesso tempo sa stare sul mercato, e ci sa stare in maniera forte e internazionale.
Anche le scelte che riguardano le sedi espositive sono molto particolari, segnate spesso dal recupero di edifici pieni di storia e non in zone centrali.
La sede di San Gimignano è un’icona, in un ex cinema degli anni ’50 recuperato. Spazio e situazione simili a l’Havana, Cuba, dal 2015. Per Parigi la strategia ha portato alla riscoperta della campagna a Les Moulins de Sainte Marie, in uno spazio di ampie metrature in una ex cartiera. La sensibilità per il paesaggio comporta la scelta di sedi inusuali, insieme all’attenzione verso il tema della rigenerazione urbana. Con questo approccio anche lo sbarco in Cina nel 2004: la loro sede a Pechino di 1000 mq espositivi, con un soffitto alto 13 metri, è strategica, all’interno della Factory798, parte di un complesso di stabilimenti produttivi costruiti in stile Bauhaus da architetti della Germania dell’est nel 1950. Il cosiddetto ‘Dashanzi Art District’ (altro nome per la ex Factory 798) è diventato da anni un caso emblematico di recupero industriale a fini artistici, con studi d’artista, gallerie, editori, librerie, studi di grafici, bar, ristoranti.

Ed ora, ad inizio 2020, per festeggiare i 30 anni di attività, Galleria Continua ha scelto di aprire un altro spazio in Italia, ed ancora una volta è una scelta non convenzionale, in un’ala dell’albergo The St. Regis di Roma, molto particolare, sconosciuta agli ospiti: la Sala Diocleziano. Nel contempo annunciando la prossima apertura a San Paolo del Brasile, all’interno di uno stadio…
Una caratteristica distintiva di Galleria Continua è quella di muoversi all’interno di un sistema globalizzato, pur mantenendo un contatto diretto con il contesto locale, ed un alto valore di reputazione che ha costruito negli anni, lavorando con artisti contemporanei di altissima qualità, tra i quali Ai Weiwei, Anish Kapoor, Antony Gormley, Daniel Buren, Michelangelo Pistoletto, Loris Cecchini, Arcangelo Sassolino.

Ma come avvengono le scelte?
Lorenzo Fiaschi ha recentemente affermato: «Le nostre corde vibrano grazie alle persone, alle situazioni, ai luoghi in cui ci ‘imbattiamo’. I nostri progetti non nascono in funzione del mercato o del collezionismo. Quando troviamo una situazione con cui ci sentiamo in sintonia l’abbracciamo, ci buttiamo, anima e corpo. Ci lasciamo travolgere dalla passione, e i risultati, fortunatamente, arrivano di conseguenza».

Buon compleanno, Galleria Continua!

Laboratorio di San Filippo Neri. Nuovo incubatore culturale a Bologna

Sono disseminate su tutto il territorio italiano, alcune in stato di abbandono, altre recuperate e trasformate in edifici storici aperti al pubblico, le chiese destinate ad attività legate all’arte e alla cultura.
In occasione di ART CITY, palinsesto urbano promosso dal Comune di Bologna durante Arte Fiera, abbiamo scoperto, o meglio “riscoperto”, un gioiello barocco dalla storia piuttosto movimentata che si presta oggi a contenitore di iniziative culturali e convegni.

Progettato da Alfonso Torreggiani nel 1733,  l’Oratorio di Filippo Neri fu aperto al culto nell’agosto dello stesso anno dal cardinale Lambertini, al tempo arcivescovo di Bologna. Dopo diverse interruzioni, l’attività dell’Oratorio chiuse nel 1866  durante il periodo napoleonico e da quel momento venne destinato a un improprio utilizzo militare. Seguirono vari interventi di restauro cancellati da un pesante bombardamento durante la seconda guerra mondiale, che distrusse gran parte dell’architettura. I lavori non furono mai completati. L’edificio venne abbandonato per numerosi anni e utilizzato solamente come magazzino di materiali edili che danneggiarono la struttura. Per anni fu l’unico monumento bolognese a non essere mai stato recuperato e restaurato.
Attualmente l’Oratorio è di proprietà della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, acquistato nel 1997, con l’obiettivo di restituirlo alla città per lo svolgimento di attività culturali. E’ Il 20 dicembre del 1999 quando l’Oratorio di San Filippo Neri ha finalmente riaperto le proprie porte al pubblico con le vesti di laboratorio dove si sperimentano linguaggi creativi contemporanei.

L’intervento di restauro affidato a Pier Luigi Cervellati è stata l’occasione per rileggere un edificio plurisecolare adattandolo a nuove funzioni senza alterarne la storicità del  monumento. La struttura lignea, realizzata per coprire la cupola disgregata nel corso dei secoli, si integra perfettamente con l’architettura degli spazi mettendo in luce un’affascinante stratificazione di momenti storici e artistici di questo capolavoro dell’architettura bolognese.

Nel corso di ART CITY, l’Oratorio di San Filippo Neri ha ospitato uno dei progetti di punta del programma; “Nave Nodriza” (Nave ammiraglia) dell’artista catalana Eulalia Valldosera (Vilafranca del Penedès, 1964), una scenografica scultura cinetica che si eleva nello spazio della navata, calandosi dall’alto fino a sfiorare con delicatezza la superficie.
Il corpo dell’installazione è rappresentato da un altissimo stelo luminoso che termina con un triangolo e un cerchio sovrapposti, quasi a rappresentare una doppia aureola. L’anima spiroidale, che richiama l’andamento del DNA umano, sostiene contenitori di olio, latte e sangue.
L’opera concepita appositamente per gli spazi dell’Oratorio, ci induce a riflettere sulla salute ambientale esprimendo la sua denuncia attraverso una manifestazione di luce e di bellezza.
A completare il progetto espositivo, un video intitolato “La Despedita” (L’addio) che immortala l’artista nel compiere movimenti in acqua con le mani, mentre si è guidati attraverso la sua voce in un percorso spirituale fatto di citazioni bibliche.

Eulalia Valldosera (Barcellona, 1963) ha esposto in diversi musei e gallerie internazionali tra cui il Reina Sofia di Madrid, il Museo d’Arte Contemporanea di Montréal e il PS1 di New York. Ha partecipato alla Biennale di Lione (2009), alla Biennale di San Paolo (2004), alla Biennale di Venezia (2001), alle Biennali di Johannesburg e Istanbul (1997), allo Skulptur Projects di Münster, alla Biennale di Sidney (1996). Collabora con lo Studio Trisorio dal 2009 dove ha realizzato le mostre Dependencia Mutua (2009), We Are One Body (2012), Plastic Mantra (2016).

Bologna. Spazi industriali rigenera(r)ti

C’era una volta un panificio comunale nato per sfamare i cittadini bolognesi nel corso della Prima Guerra Mondiale. Siamo nel 1914 e Francesco Zanardi vince le elezioni comunali trovandosi presto ad affrontare la situazione economica della città, dove la maggior parte della popolazione vive alle soglie della povertà. E’ il 1 febbraio del 1917 quando il primo pane dello stabile viene sfornato. Ad un certo punto, arriva la guerra e l’edificio viene svuotato e parzialmente danneggiato. Gli anni passano e ciò che rimane dell’ex forno, viene adibito a diversi usi fino a non essere più utilizzato dall’amministrazione comunale e dato in affitto a diverse attività private.

Oggi di quel panificio storico rimane solo un lontano ricordo, e al suo posto sorge il MAMbo, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Bologna, inaugurato il 5 maggio del 2007. 
Al tempo la GAM, la Galleria d’Arte Moderna della città, non poteva ospitare l’intera collezione d’Arte Moderna e Contemporanea, considerando le crescenti acquisizioni e donazioni avvenute nel corso degli anni che comportarono continui trasferimenti.
Fu pertanto indispensabile istituire un nuovo luogo di cultura che potesse diventare nel tempo un centro culturale volto alla sperimentazione e all’innovazione. 
All’interno di 10mila metri quadrati dell’ ex Forno del pane, l’architettura industriale e monumentale dello stabile ha permesso di creare una nuova e straordinaria struttura museale. Tracce della precedente configurazione del luogo sono ancora presenti all’interno degli spazi, quali la presenza di canne fumarie negli ambienti della collezione permanente del Museo, simbolo di memoria archeologica.

Oggi il patrimonio della collezione permanente del Museo si compone di 3.500 opere, raccogliendo lavori dell’arte emiliana del 900, parte della collezione morandiana, opere dei maggiori rappresentanti dell’arte italiana e internazionale e sperimentazioni di artisti emergenti. Oggi il MAMbo, che raccoglie l’eredità della collezione della GAM nella propria sede, si fa portavoce di una storia trentennale che ha saputo ripercorrere la storia dell’arte italiana e internazionale puntando alla ricerca della più innovativa avanguardia culturale. Negli anni il Museo, da semplice spazio espositivo, è diventato un polo artistico volto a sostenere le esperienze dell’arte contemporanea, affermandosi come principale centro del panorama artistico italiano.

La storia del MAMbo è solo uno dei molteplici casi di recupero industriale della città. 
Infatti, lo stabile si trova in quello che oggi è chiamato Distretto Culturale della Manifattura delle Arti, un’area originariamente riservata all’attività produttiva e commerciale, un hinterland industriale alle porte di Bologna. Il distretto, situato nel cuore del centro storico, si estende su 100 mila metri quadri ospitando attualmente la Cineteca di Bologna, costruita su un ex Manifattura di Tabacchi, la sede del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università, nato dalle ceneri della vecchia cartiera, il Dipartimento dell’Arti collocato negli spazi dell’ex Macello e il Cassero nei spazi dell’ ex Salara.
La realizzazione di un distretto culturale, considerato uno dei poli più ampi d’Europa, data l’estensione su cui si sviluppa, risponde a un forte bisogno di recupero sotto il profilo urbanistico di un quartiere centrale della città e di provvedere alla creazione di uno spazio in cui l’arte e la cultura attuino una reciproca sinergia collaborativa tra le varie istituzioni presenti. Vi è quindi la volontà di intrecciare una rete di connessioni tra centri dedicati alla cultura, capaci di rispondere alle esigenze della società contemporanea. 

Ed è da qui che nasce la Manifattura delle Arti a Bologna: un progetto per rigenerare il tessuto urbano recuperando e valorizzando una parte della città con attività artistiche, culturali e di ricerca.

Chiesa di San Teonisto a Treviso. Da spazio silente a auditorium

Nell’immaginario collettivo una chiesa sconsacrata è simbolo di abbandono o di incuria. Diversamente, esistono casi interessanti in cui la stessa continua a svolgere la sua funzione di aggregazione per la comunità attraverso iniziative culturali.
E’ il caso della chiesa di San Teonisto costruita nel cuore della città di Treviso nel 1434 come parte del convento di Santa Maria Assunta di Mogliano Veneto, casa delle monache benedettine, oggi luogo di cultura della Fondazione Benetton Studi e Ricerche.

La Chiesa di San Teonisto è un caso esemplare di “rifunzionalizzazione” del luogo di culto che, espropriato per vicissitudini storiche della sua tradizionale funzione religiosa, torna ad essere un punto di incontro per la comunità attraverso la promozione di progetti culturali contemporanei.
Dopo un intervento di restauro iniziato nel 2014 e terminato nel 2017 a cura dell’architetto Tobia Scarpa, la chiesa è stata destinata a spazio per musica e spettacoli culturali.

Il recupero dell’edificio sconsacrato, avvenuto con l’acquisizione dell’immobile da parte dell’imprenditore Luciano Benetton nel 2010, ha permesso la ricollocazione di quasi tutte le opere pittoriche originarie, perdute e trafugate in età napoleonica o messe in salvo presso i Musei Civici di Treviso durante i bombardamenti bellici del 1944. Stiamo parlando di grandi tele commissionate dalle monache benedettine a importanti pittori dell’epoca, quali Jacopo Lauro, Carletto Caliari, Matteo Ingoli, Bartolomeo Scaligero, Pietro della Vecchia, Ascanio Spineda, Alessandro Varotari detto il Padovanino, Matteo Ponzone, Paolo Veronese e Antonio Fumiani. Tra queste, le “Le nozze di Cana” di Paolo Veronese ora custodito a Palazzo Montecitorio, la pala di “Palma il Giovane” raffigurante il “Martirio di San Teonisto”, il “Martirio di Santa Giuliana” di Carletto Caliari e il grande affresco del soffitto, ad opera di Jacopo Guarana raffigurante l’Assunzione della Madonna.

Oggi la Chiesa di San Teonisto mantiene l’architettura originaria, arricchita da elementi architettonici ricreati attraverso un sapiente processo di restauro che ha previsto l’installazione di lampadari in vetro soffiato e la realizzazione di una gradinata a scomparsa, permettendo di creare uno spazio polifunzionale da adibire a sala da musica, auditorium o a spazio espositivo. 
Il soffitto, ricostruito sulla base dell’originale, crollato durante la seconda guerra mondiale, si distingue per un’apposita struttura realizzata con travi metalliche e una copertura a capriate lignee. Nell’ingresso, accedendo da un piccolo cortile interno sotto forma di foyer, sono collocate quattro colonne di cui tre sormontate da un antico capitello ionico e una da una scultura in vetro serigrafato raffigurante la Menade danzante, simbolo del Duomo di Treviso e logo istituzionale della Fondazione Benetton Studi Ricerche.

L’operazione, che ha sancito una nuova vita alla chiesa, rappresenta un valido esempio di riqualificazione dello spazio liturgico, offrendo spunti di riflessione sul recupero di edifici che per diversi motivi risultano oggi inutilizzati e abbandonati.
La riscoperta di spazi andati dimenticati non è una novità parlando della Fondazione Benetton Studi e Ricerche. Già in aprile del 2018, il Presidente Luciano Benetton aveva aperto le porte delle vecchie carceri asburgiche della città inaugurando lo spazio espositivo Imago Mundi, un luogo multidisciplinare destinato ad artisti internazionali sia già affermati che emergenti.

Quayola, Seconda Natura. Testo critico di Lucia Longhi

“La pittura abbraccia in sé tutte le forme della natura.”
Leonardo da Vinci

Nella struttura di una foglia o nella sequenza evolutiva di un ramo sono rinchiuse funzioni matematiche che ne descrivono l’ordine e lo sviluppo. Questa affermazione non ha carattere di novità. Tuttavia, sono proprio esse l’origine della possibilità di osservare oggi la natura sotto una prospettiva nuova, che dischiude altrettante nuove riflessioni sul nostro rapporto con la realtà come esseri umani.
L’osservazione e rappresentazione della natura è alla base del legame primordiale dell’uomo con ciò che lo circonda; una pratica che procede di pari passo con gli sviluppi della tecnica. In questo contesto è utile evocare Leonardo da Vinci. Il suo approccio alla conoscenza era di tipo visivo: l’esercizio pittorico era infatti funzionale alla ricerca. Il virtuosismo non si esauriva nella celebrazione della pratica artistica, bensì serviva alla comprensione delle strutture del mondo naturale. Il disegno gli permetteva di leggere la natura e di scoprirne sia le forme che i processi evolutivi. Una visione dell’arte quindi come metodologia di ricerca scientifica. Il quindicesimo secolo ha visto un grande sviluppo degli studi botanici anche grazie alla diffusione degli erbari, in cui illustrazioni dettagliate affiancavano le descrizioni delle piante. Gli orti botanici ne sono stati la culla, illustri testimoni del progresso del metodo scientifico e della scienza botanica, che è passata quindi anche attraverso l’arte per definirsi come disciplina. La rappresentazione visiva dunque non ha mai smesso di accompagnare la scienza nei processi di comprensione del mondo.

La pratica artistica di Quayola ha origine da una fascinazione, ossia come i pattern che esistono in natura siano riproducibili con espressioni matematiche. Le simulazioni digitali oggi usate per raffigurare il fuoco, il vento, il mare o le foreste sono estrapolate dalle funzioni matematiche già presenti in questi elementi. Queste funzioni per l’artista non sono un mezzo, bensì il soggetto stesso dell’indagine artistica. Essa si inserisce poi nel contesto dell’eredità figurativa classica, in particolar modo della pittura en plein air, inserendosi così nella Storia dell’arte. Il lavoro di Quayola dunque contiene eredità storica e pratica contemporanea volta alla comprensione del futuro. Anche l’orto botanico racchiude in sé sia il passato, che la ricerca indirizzata al progresso.
La natura rappresentata da Quayola appare lievemente diversa da quella a cui siamo abituati: unisce forme naturali e pittoriche familiari con codici appartenenti al mondo digitale, che pure risuonano con la nostra sensibilità. Suscitano così un’empatia che invita a riflettere e ridefinire le categorie secondo cui leggiamo e classifichiamo la realtà: naturale/artificiale, antropico/tecnologico. Non da ultimo, stimolano a rinegoziare il nostro ruolo rispetto alla tecnologia nei processi di osservazione della realtà.

La ricerca morfogenetica botanica si serve sempre di più dei computer per analizzare la natura a partire dalle costanti matematiche in essa contenute. Fotografie ad alta risoluzione e scansioni 3D servono alla raccolta dati, software avanzati creano simulazioni accurate. Sono strumenti che presentano un potenziale non soltanto per gli utilizzi tecnici ma anche per i linguaggi visivi nuovi che dischiudono: quelli del mondo digitale.

Questo è il punto di partenza della riflessione di Quayola, per cui la natura dunque è non più solo soggetto di indagine, bensì, esattamente come per i pittori del passato – in particolar modo gli Impressionisti – un pretesto per sondare un nuovo metodo di lettura del mondo. È il processo che diventa così il vero soggetto, permettendo anche di esplorare l’orizzonte evolutivo che stiamo attraversando come esseri umani.
Ecco che si dischiude quindi, accanto alla prima natura, una seconda natura. Seconda natura è quella che emerge dall’osservazione fatta per mezzo della tecnologia. Una natura dal volto diverso e nuovo. La logica dei computer infatti non è più assoggettata alla nostra. Le intelligenze artificiali hanno sistemi di percezione e codifica autonomi – per alcuni aspetti simili, per altri molto distanti dalle facoltà umane. La tecnologia dunque è entrata a pieno titolo tra gli agenti atti a comprendere la natura e ha introdotto così anche nuove estetiche, con cui l’uomo ora è chiamato ad allinearsi. Contemplando le immagini di Quayola ci accorgiamo che non si tratta di una rappresentazione della realtà: ciò che vediamo sono rappresentazioni di simulazioni della natura da parte di un computer. Si impone allora un ulteriore livello di lettura: quello dei codici visivi della macchina da parte dell’uomo. Parlare di rappresentazione però non è esatto: si tratta di un esercizio di astrazione. È il modo della macchina di capire il mondo.

 

Il video Jardins d’Été (45 min loop) e le relative stampe (Jardins d’Été, ink-jet prints) sono simulazioni digitali che ci ricordano i dipinti impressionisti, in cui però le pennellate sono create da algoritmi processati da un software. La matrice di riferimento sono riprese video dei giardini del castello di Chaumont-sur-Loire in Francia, pertanto i movimenti delle sequenze nella simulazione finale sono estratti dai veri movimenti delle piante. La fonte però quasi perde importanza nel momento in cui la macchina procede autonomamente a creare pattern pittorici. Soltanto nella fase iniziale essa aƫnge ai movimenti e ai colori dell’immagine di riferimento, per poi realizzare simulazioni indipendenti.
L’osservazione della natura è quindi solo un punto di partenza, un pretesto per andare a indagare nuove logiche conoscitive.

Similmente, nel progetto Remains la foresta è rappresentata attraverso la raccolta di dati con scanner 3D, che funziona con un sistema di laser ad alta risoluzione che si muovono nello spazio. I dati sono poi restituiti in forma di milioni di puntini bianchi. Se, da un lato, il sistema di lettura della macchina delle foreste della Vallée de Joux (Svizzera) è estremamente accurata, dall’altro presenta anche imperfezioni e quindi abbassamenti di risoluzione. Anche qui possiamo così osservare il comportamento del computer nel momento in cui si trova a leggere delle situazioni particolari, ad esempio una rifrazione anomala della luce a causa dell’umidità. Il grande formato è allora necessario, per rendere visibili le caratteristiche intrinseche della ricognizione della foresta da parte del laser, restituendo così anche un’idea della scala su cui opera il computer.
Da un lato, il livello di dettaglio è altissimo. Dall’altro, sia in Remains che in Jardins d’Été la precisione dell’immagine appare ridotta.

Come nella tecnica impressionista, la riduzione dell’informazione visiva paradossalmente è capace di dischiudere una grande potenza espressiva. Anche qui, infatti, è proprio essa che rappresenta la complessità del processo.
Per entrambe le strumentazioni si tratta di un lavoro che richiede molto tempo: lunghissimi momenti di osservazione del comportamento della macchina e delle informazioni restituite, selezione dei dati e nuovo settaggio degli strumenti, per poi procedere nuovamente a far leggere alla macchina la scena di riferimento. Si ottengono così le immagini che vediamo oggi.
Tempi lunghi, proprio come quelli del pittore che dall’alba al tramonto si immergeva nella natura per dipingerla. Un processo, inoltre, di reciproca conoscenza tra l’uomo e la macchina. Alla luce di questo si presenta ora un ulteriore e decisivo livello di processo, e quindi di riflessione critica: l’intervento dell’artista sulle azioni della macchina, dopo aver capito e imparato il suo sistema visivo e la sua logica di interpretazione della realtà.
Siamo abituati a pensare al cosiddetto machine learning, come le macchine cioè imparino a capire e migliorare autonomamente le proprie funzioni. In questo senso allora il processo di Quayola è inverso, un reverse machine learning, in cui l’uomo conosce la macchina e collabora con essa nella codifica della realtà.

Ecco perché possiamo parlare di seconda natura: una seconda natura da osservare, diversa da quella a cui la nostra esperienza umana ci ha abituati. Ciò che ne risulta però è non soltanto una lettura nuova di paesaggi e pattern naturali, ma anche un’osservazione sull’evoluzione dell’uomo. Questi lavori invitano infatti a riflettere su una verità cogente: i computer erano stati programmati per somigliare agli esseri umani, ma oggi molti dei loro processi non sono più accessibili alla mente umana. Siamo noi, ora, che stiamo trasformando il nostro modo di pensare e di vedere, i nostri sistemi di rappresentazione e le nostre estetiche, per avvicinarci alle loro facoltà. Una domesticazione reciproca.

Si approda così al discorso più rilevante aƫtivato da Quayola, quello riguardante il nostro rapporto con la tecnologia. E torna utile allora evocare di nuovo il termine “seconda natura”. Esso fa riferimento, nella Storia del Pensiero, allo statuto dell’essere umano, che si distingue dalla “prima natura” proprio in virtù delle sue capacità intellettive e culturali. Nell’arte di Quayola vengono dunque esplorati i nuovi parametri da valutare quando si parla di uomo e natura, in quanto l’agente antropico non è più protagonista unico nell’esplorazione della realtà, e la tecnologia ha oggi dignità di identità autonoma.

Le immagini che osserviamo all’Orto Botanico sono di fatto uno studio sul posizionamento dell’essere umano nel suo mondo e nella sua epoca, e sulle gerarchie tra uomo, natura e tecnologia. La conoscenza del mondo oggi non è più solo su scala umana; le immagini di Quayola sono emblema di questa coesistenza della nostra visione con quella della macchina. Un’espressione contemporanea della collaborazione tra arte e scienza.
Anche qui, dunque, una visione dell’arte come metodologia di studio scientifico. L’artista utilizza l’esercizio pittorico digitale per comprendere una natura nuova, quella vista attraverso gli occhi della tecnologia, e per comprendere la tecnologia stessa, che è forse a tutti gli effetti una seconda natura.