Il villaggio industriale ideale patrimonio dell’UNESCO

Un tempo e un luogo in cui due imprenditori “illuminati”, Cristoforo Crespi e suo figlio Silvio Benigno, sognavano di costruire un villaggio ideale destinato al lavoro lungo le rive dell’Adda. Un progetto urbano autosufficiente e a misura d’uomo, dove operai e artigiani potessero convivere all’interno della loro comunità secondo un piano ideale di ordine e armonia.
In un mondo ben lontano dalla globalizzazione, dove le lunghe distanze potevano essere percorse solo con il treno a vapore, il progetto della famiglia Crespi non fu solamente visionario ma anche rivoluzionario.

Il Villaggio di Crespi d’Adda è un vero gioiello di archeologia industriale. Costruito a partire del 1878 in pieno fermento industriale, fu destinato esclusivamente agli operai e alle loro famiglie, con l’obiettivo di ricreare quel’ “habitat” sociale tipico di qualsiasi altra città.
I lavori iniziarono con la costruzione della fabbrica per la filatura, la tessitura e in ultimo la tintoria; accanto alla quale si ergeva la maestosa residenza padronale in stile medioevale trecentesco, con la sua torre, simbolo del potere della famiglia Crespi.
Negli anni, seguirono la costruzione di una centrale di alimentazione energetica che potesse supportare le produzioni attive e una serie di servizi necessari alla comunità; come la chiesa, la scuola, l’ospedale, le botteghe alimentari e di vestiario e una serie di attività per il dopolavoro e il tempo libero. Un piccolo cosmo sociale ed imprenditoriale in cui i suoi abitanti potevano vivere e al contempo lavorare.
Oltre ad essere all’avanguardia nella dotazione dei servizi, in questa piccola città furono introdotte importanti innovazioni tecnologiche, come l’illuminazione elettrica con il sistema Edison per migliorare sia l’efficienza produttiva che la qualità di vita di operai e impiegati. Ma le curiosità su questo “città ideale” del lavoro operaio non finiscono qui.

Nonostante Crespi d’Adda si trovi in provincia di Bergamo, il suo prefisso telefonico corrisponde a quello di Milano. Al tempo, i Crespi fecero installare una linea privata a lunga distanza che collegava il loro castello con la residenza di Milano.
La scuola, riservata esclusivamente ai figli degli operai, forniva gratuitamente il materiale scolastico necessario all’apprendimento. Lo stipendio e l’alloggio degli insegnanti era coperto interamente dalle rendite della fabbrica. Per non badare a spese, agli inizi del ‘900 fu costruita anche una piscina ad uso esclusivo e gratuito dei dipendenti.
Nei bagni pubblici, dove gli abitanti potevano recarsi a turno per lavarsi, il giovedì era dedicato ai bambini che in quel giorno non andavano a scuola, ma ricevevano un gettone che dovevano consegnare all’insegnante il giorno dopo per attestare che si fossero lavati o meno.
I lavatoi riscaldati erano un altro dei servizi unici del paese: l’acqua calda era a disposizione delle donne, sia in estate che in inverno, e lo stesso luogo fu coperto da una tettoia senza dover andare a fare il bucato al fiume.
E ancora, la Chiesa, costruita in pieno stile rinascimentale, non è originale; ma una copia della Chiesa di Busto Arsizio, città natale dei Crespi.

Le fortune di questo luogo, tuttavia, terminarono nel 2003, quando una crisi economica mandò al collasso l’intero villaggio. Alle 16.52 del 20 dicembre di quell’anno, le campane in città suonarono a lutto e tutti gli operai furono costretti ad uscire per l’ultima volta dai magazzini del cotonificio. Ancora oggi, visitando questo particolare luogo, l’orario è visibile sull’orologio posizionato all’ingresso della fabbrica.
La storia del Villaggio Crespi d’Adda è una storia di lavoro, dedizione e rispetto, che ha rappresentato negli anni, un prezioso modello di riferimento. 
Il Villaggio, completato tra Ottocento e Novecento, si trova oggi perfettamente integro mantenendo pressoché intatto il suo aspetto urbanistico e architettonico. Le sue abitazioni, circa cinquanta casette realizzate nel particolare stile inglese, sono oggi abitate dai discendenti dei lavoratori.

Dal 1995, è stato inserito nella lista dei siti Patrimonio UNESCO come “esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa.”

Un villaggio degli anni ’50 e una chiesa tra le dolomiti come simbolo di rinascita sociale e artistica

È stato richiesto il rinvio dei Mondiali di Sci di Cortina, dal 2021 al 2022. La stessa Cortina ospiterà le Olimpiadi Invernali del 2026.
In questi luoghi ci sono alcuni progetti culturali degni di nota, che intendono sfruttare tali contesti per creare un circolo virtuoso di creazione di valore e di visibilità.
Tra questi vi vogliamo parlare dell’ex Villaggio ENI di Borca di Cadore e di una chiesa inserita nel complesso che dovrebbe diventare il perno ed il simbolo di un’opportunità di riutilizzo che è già stata avviata nelle sue linee principali.
Dolomiti Contemporanee, infatti, è un progetto culturale che dal 2011 mira alla valorizzazione di siti dall’elevato potenziale all’interno dell’area Dolomiti UNESCO Patrimonio dell’Umanità. Progettoborca, iniziativa di rigenerazione attiva dal 2014, è un progetto articolato, che mira alla riqualificazione dell’ex Villaggio ENI a Borca di Cadore, con l’obiettivo di rifunzionalizzare alcune sue parti.

L’ex Villaggio ENI è il risultato di una visione ambiziosa di Enrico Mattei, realizzato tra gli anni ’50 e ’60 dall’architetto Edoardo Gellner, con la collaborazione di Carlo Scarpa, ed aveva la funzione di colonia per i dipendenti ENI. Il patrimonio principale di ogni azienda, sosteneva Mattei, sono i propri dipendenti, i quali devono essere posti al centro.
Da qui la realizzazione di case per il personale vicino ai complessi industriali di proprietà dell’azienda e la realizzazione di villaggi per le vacanze e il tempo libero per i figli e per le famiglie.
L’area del villaggio era di circa 200 ettari per una previsione di 600 bambini ospitati e 263 villette. Il sito ha suscitato da sempre grande interesse dal mondo dell’architettura e della sociologia, ma non solo. La storia della chiesa di Nostra Signora del Cadore, situata all’interno del villaggio, è una storia ricca di aneddoti.
Mattei era uomo di fede e vedeva nella chiesa il centro attorno al quale si sarebbe radunata la popolazione del villaggio. Da questa idea, pian piano il ruolo della chiesa crebbe sempre più diventando dopo la sua realizzazione il cuore di tutto il villaggio, dal punto di vista urbanistico, architettonico, ma anche simbolico.

Quando nel 1956 Gellner chiese a Carlo Scarpa di collaborare al progetto della chiesa del villaggio, il complesso era già in avanzata fase di progettazione, così come la realizzazione di molte casette, ed il progetto chiesa era già stato definito.
Certo, convincere il già affermato Scarpa a collaborare ad un progetto già definito nelle sue linee principali non fu probabilmente facile, così come cercare di far coesistere le convinzioni del maestro con il luogo inedito: il bosco e la montagna.Ma il risultato dimostrò una sintesi perfetta delle due capacità messe a confronto.
La chiesa ha una caratteristica forma, con un grande spazio unico definito da colonne che sorreggono coppie di costoloni su cui sono poggiate le due grandi falde del tetto, inclinate a 60°. Le forme organiche e angolate creano un profondo legame dell’architettura con la montagna, mentre la guglia – alta ben 55 metri –  consente all’edificio di assumere una valenza paesaggistica nell’ambiente circostante caratterizzato dalla profonda vallata e dalla cima dell’Antelao.
La scomparsa di Mattei, nel 1962, ridusse la spinta necessaria alla realizzazione di questo esperimento d’utopia sociale in ambiente, che fu dunque completata solo in parte, rispetto al progetto iniziale. Ma si tratta ancora oggi di un sito eccezionale ed unico in Italia, nel quale il rapporto tra gli aspetti forti di paesaggio e ambiente naturale si fondono in modo eccellente con le architetture organiche. Uno dei temi della manutenzione e della valorizzazione ha a che fare con la gestione del bosco, che tende a divorare le costruzioni. L’altro con il ridare importanza al tutto.

Un esempio del progetto di riqualificazione del villaggio, con il Progettoborca, è legato ad una iniziativa di residenza artistica internazionale, già attivata.
Gli artisti sono chiamati a vivere e lavorare in questi luoghi, chiesa compresa, per poi lasciare un’impronta del loro operato, sempre in un’ottica di condivisione e collaborazione e secondo lo spirito del fondatore.
Dolomiti Contemporanee ha pensato a un programma a medio-lungo termine per l’area, di «rifunzionalizzazione che non si limiti a generare un impulso al riavviamento, ma si impegni invece nella ridefinizione culturale ed identitaria di questi beni sopiti, dei quali si intende riabilitare appieno il potenziale, in modo innovativo, ma in coerenza con la loro significativa storia pregressa».

Come a dire, non ci sono solo un luogo architettonico e una chiesa da rivalutare, ma anche dei valori sociali e legati all’innovazione.

Tate Modern turns 20

Una fabbrica abbandonata convertita a polo museale tra i più visitati al mondo. Parliamo delle Tate Modern di Londra che ha da poco celebrato il suo 20esimo anniversario. Era il 12 maggio del 2000, quando fu inaugurata la galleria d’arte moderna e contemporanea che avrebbe accolto oltre 5 milioni di persone all’anno.
Situata nel pieno centro della capitale britannica lungo la riva meridionale del Tamigi, la Tate Modern occupa gli spazi di una precedente centrale termoelettrica costruita tra il l ‘47 e il ’63, la Bankside Power Station, progettata da Sir Giles Scott, autore della celeberrima cabina telefonica inglese.

Nel 1981, a causa degli aumenti di prezzo del petrolio e degli ingenti costi di manutenzione, lo stabile è costretto a chiudere. Una decina di anni dopo la Tate Gallery, che contava all’epoca la Tate Britain nella via di Millbank, la Tate Liverpool e la Tate St. Ives in Cornovaglia, decise di acquistare l’intero sito industriale. L’appalto dei lavori fu affidato allo studio Herzog & de Meuron, la cui firma appare sui progetti dell’Allianz Arena di Monaco e lo stadio di Pechino delle Olimpiadi del 2008.
Il risultato, un immenso spazio espositivo sviluppato su tre ambienti distinti ma connessi tra loro, le cui strutture architettoniche sono state conservate e valorizzate senza alterarne l’aspetto originale.
La Boiler House, parte della vecchia centrale che in passato ospitava le caldaie, offre oggi spazio a gran parte delle gallerie espositive del museo. La Turbine Hall, lo scenografico ingresso del Museo realizzato dalla rimozione dei precedenti macchinari, è utilizzato come area espositiva per opere scultoree e site-specific di artisti contemporanei.

Un esempio, Maman, opera dell’artista Louise Bourgeois che sancisce un momento storico per l’istituzione inglese: fu esposta per la prima volta nella sala delle turbine in occasione dell’inaugurazione. Al tempo, accolta con reazioni contrastanti di stupore e divertimento. La scultura, raffigurante un ragno con una sacca contenente 32 uova di marmo, è tra le più grandi del mondo e l’unica realizzata in acciaio inossidabile. Oggi di proprietà della Tate Modern che acquisì l’opera nel 2008.
Parlando della Turbine Hall, come non menzionare l’installazione di The Weather Project (2003) dell’artista danese Olafur Eliasson in cui sperimentò la luce e le sue declinazioni cromatiche attraverso la ricreazione del Sole e di tutta la sua energia. Un gigantesco pannello semicircolare retroilluminato scende da un soffitto composto da pannelli riflettenti che amplificano la superficie illuminante e la percezione del volume della sala.
Oppure, come dimenticare Test Site (2007), l’installazione interattiva dell’artista belga Carsten Holler composta da cinque scivoli in plexiglass, vetro e metallo che chiunque poteva sperimentare scivolando all’interno di essi.
Infine la nuova Switch House, nella parte sud dello stabile dove si trovavano i vecchi serbatoi sotterranei per il petrolio, che aggiunge altri 20.700 metri quadrati di spazi espositivi.

Il museo ospita oggi mostre permanenti e temporanee dei più celebri artisti contemporanei. Esposizioni, tra l’altro, totalmente gratuite ad eccezione di alcune per progetti speciali, da qui, forse, il segreto del suo successo. Secondo un recente articolo sulla rivista The Art Newspaper, nel 2019, la Tate Modern è stata il sesto museo più visitato al mondo, con una cifra record pari a oltre 6 milioni di visitatori; in una top ten in cui compaiono il Louvre di Parigi, il Museo Nazionale della Cina di Pechino, i Musei Vaticani, il Met di New York e il British Museum di Londra.
Tra le mostre più recenti ricordiamo la grande retrospettiva dedicata a Edvard Munch nel 2012, con oltre 60 opere dell’artista norvegese, la personale dedicata all’esponente Fauvista Henri Matisse nel 2014, la personale dedicata al Maestro del Cubismo Pablo Picasso nel 2018 e più vicina ai nostri giorni, la personale sul padre della Pop Art Andy Warhol, chiusa pochi giorni dopo l’inaugurazione a causa dell’emergenza sanitaria. E per il suo 20esimo anniversario, un compleanno a opera d’arte con l’esposizione Maman di Louise Bourgeois , Infinity Mirrored Room di Yayoi Kusama e performance di Our Labyrinth di Lee Mingwei.

20 anni e non li dimostarli! La Tate Modern è stata e continua ad essere un trionfo dell’architettura e della rigenerazione urbana, un progetto urbano che ha saputo trasformare il “lato brutto” del Tamigi in una meta da non mancare. Ma il museo non intende fermarsi. Ha, infatti, in programma di ampliare ancora del 60% gli spazi espositivi costruendo un nuovo edificio all’esterno dell’attuale.

Intervento di Alessia Panella

Il mio primo incontro con l’arte è avvenuto a Roma quando da piccola accompagnavo il papà e la sera mi portava al Caffè Rosati ove collezionavo storie affascinanti di pittori quasi rivoluzionari, soprattutto di Schifano. Una delle prime opere che ho comprato è stato ovviamente un enorme quadro di Schifano.  Tuttavia sono due gli incontri indimenticabili.

Nel 2010 sono entrata a Villa Borghese per vedere la mostra di Bacon e Caravaggio esposti insieme. Per me, che venivo dal mondo dell’astratto e delle performance newyorchesi, è stato un punto di rottura, un incontro con emozioni che non sapevo di poter provare.

Certo, amavo Bacon e apprezzavo Caravaggio ma vederli insieme, vedere quelle enormi tele a confronto in un luogo come Villa Borghese, ha provocato un elettroshock che non potrò mai dimenticare. E’ stato per me come essere all’improvviso senza pelle, senza difese e sono stata catapultata in un vortice di emozioni indescrivibili.

Nel 2015 poi al MoMa ho incontrato Marina Abramović pochi giorni prima dell’inaugurazione della performance The Artist is present. Lei, di fronte alla mia tristezza per non poter rimanere a New York sino a quella data, senza conoscermi, mi ha invitata ad una preview. Ho atteso tutto il giorno e sono stata l’ultima persona a riuscire a sedersi prima della chiusura. Durante quei minuti ho percepito nettamente l’importanza di recuperare la dimensione più intima dell’essere umano, la capacità di poter vivere del hic et nunc.

Penso che l’arte abbia il potere di collegarci con il nostro io più profondo, qualunque esso sia, e di farci raggiungere mete sconosciute. In fondo in suo nome sono state fatte follie sia da parte di popoli che di individui. Ciò che accade in questi giorni è ovviamente non solo triste ma tragico e all’inizio mi sono sentita smarrita, un po’ come durante la mostra di Villa Borghese. Tuttavia se c’è stata una cosa che ha reso tollerabile, o addirittura apprezzabile, questo periodo è sicuramente la possibilità di vedere molta arte, di vederla con mio figlio. Ancora una volta di più mi sono convinta che il nostro mondo ha bisogno non solo di conquiste economiche e tecnologiche ma di poeti e di artisti per non perdere mai il senso di noi stessi. C’è un’immagine che mostro sempre ai miei colleghi in apertura dei convegni che amo intitolare “Arte e Diritto, Arte e Fisco: tra Sacro e Profano”, è l’espressione di due visi senza tempo colta da due persone che hanno vissuto a distanza di quattrocento anni l’una dall’altra. Il potere narrativo assoluto forse, ma forse, è il potere dell’arte.

Biografia

ALESSIA PANELLA | Avvocato e Collezionista da oltre 20 anni. Si occupa di diritto civile ed è specializzata in contrattualistica e in diritto dell’Arte e dei Beni Culturali. Ha insegnato diritto dell’Arte e diritto d’Autore presso lo IED di Venezia e insegna presso il Master IULM di Roma in Management delle Risorse Artistiche e Culturali. Pubblica articoli in giornali o riviste specializzate ed è co- ideatrice e co-curatrice della Rivista Ares and Economics. È co-presidente di AIMIG (Amici Italiani del Museo di Israele di Gerusalemme) e componente del CDA del Museo di Miramare.

Intervento di Sabrina Donadel

La mia prima volta davanti ad un’opera d’arte è stata anche la mia prima volta di Giovanni Battista Cima, detto Cima da Conegliano. Ero in quinta elementare, dal piccolo paese di Pieve di Soligo dove vivevo, la maestra ci portò in gita al Duomo di Conegliano, distante pochi chilometri, dove cominciò a raccontarci la storia di quello che è stato uno dei maggiori esponenti della scuola veneta del XV secolo.
Il ricordo della bambina di dieci anni davanti alla Madonna in trono col Bambino fra angeli e santi – olio su tavola trasportato su tela, datato 1492 – è nitido. Fui rapita dallo sguardo della Madonna, dai colori, dalle pieghe delle vesti, dalla concretezza dei dettagli. Lo stupore fu tale che da lì in poi mi appassionai alla pittura del Rinascimento e chiesi in dono dei libri sui quali poterla ammirare.
Giovanni Battista Cima nacque a pochi passi dal Duomo e quando passammo davanti alla sua casa, oggi casa museo, la maestra ci emozionò raccontandoci che, dopo essersi trasferito a Venezia, veniva a passare le estati sui nostri colli. Il grande pittore viene ritenuto uno dei geni della storia dell’arte e le sue opere sono custodite nelle maggiori gallerie del mondo.

La mia prima volta davanti ad una scultura è stata anche la mia prima volta di Antonio Canova. Avevo dodici anni e il professore di storia dell’arte della scuola media che frequentavo ci portò in gita a Possagno, a pochi chilometri da casa, in visita alla Gypsotheca, voluta nel 1834 dal fratellastro dell’artista, che raccoglie i numerosi modelli in gesso, bozzetti in terracotta e marmi del celebre scultore che era nato nella casa accanto e dove tornava spesso dai suoi viaggi per trovare riposo.
La bellezza, la delicatezza, i volti del gesso di Amore e Psiche stanti mi lasciarono senza parole. La storia d’amore tra il dio Eros e la bellissima, ma terrena, Psiche è racchiusa in un battito d’ali. Quella farfalla, simbolo dell’anima che la fanciulla dona al suo amato e quelle mani che, con un gesto fragile, la accarezzano quasi a proteggerne la purezza, rimasero scolpite dentro di me tanto che, quando molti anni dopo ebbi la fortuna di vedere la stessa opera in marmo, fu un’emozione unica non solo per la sensibilità con cui Canova trattava questo materiale ma anche perché mi riportò agli occhi increduli di quella ragazza, poco più che bambina, davanti alla potenza espressiva e senza tempo di un grande artista.
Tale è stata la forza della scintilla scattata in me per le opere scultoree di Antonio Canova che, ogni volta che mi trovo di fronte ad una scultura, il mio sguardo è percorso da un’energia sottile, diversa. E da qui l’amore per il lavoro di un altro grande artista.

La mia prima volta oltreoceano, a New York, è stata anche la mia prima volta di Constantin Brancusi. Quando ho visto La musa addormentata mi sono immobilizzata, rapita dalle forme, dall’energia materica e al tempo stesso spirituale. L’opera in bronzo realizzata dall’artista nel 1910, raffigura un volto di Musa dove le strie dei capelli sono patinate in contrasto con la levigatezza del volto, gli occhi sono chiusi e la bocca è socchiusa in una fessura asimmetrica. La testa reclinata della musa addormentata, con quelle sue forme pulite, essenziali, in un primitivo ideale di bellezza, è stata per me un colpo di fulmine.

«La semplicità non è un obiettivo nell’arte – ha dichiarato Brancusi – ma si raggiunge anche senza volerlo penetrando nel vero senso delle cose».

Ecco, nel rapporto fisico con la scultura, con la materia lavorata e plasmata dall’artista, io mi sento di poter penetrare l’essenza.

Biografia

SABRINA DONADEL | Giornalista e conduttrice televisiva, in onda su Sky Arte con Private Collection, format da lei ideato, prodotto e condotto che racconta il mondo dei collezionisti di arte contemporanea.

Intervento di Philips Rylands

Sorge spontaneo chiedersi, di fronte a questo quadro intitolato Giocatori di calcio di Henri Rousseau, perché l’uomo al centro dell’opera stia tenendo in mano la palla.
È forse scontato che si tratti di rugby? La palla potrebbe essere ovale e il secondo giocatore con la tuta a righe rosa e blu sembra sbracciarsi per riceverla, mentre il giocatore a sinistra, in rosso e giallo, sembra aver perso la sua occasione di afferrare e atterrare l’avversario con la palla in mano. O forse sta facendo quello che spesso fanno i giocatori di calcio, ovvero lo sta strattonando per la maglia? O forse c’è un’altra spiegazione.

Nell’eccentrico mondo naïve immaginato da questo primitif, le regole non esistono, tutto è possibile e questo è semplicemente come Rousseau ha immaginato lo sport del calcio.
Solamente lo sguardo lucido di Cornelia Lauf, autrice della scheda dell’opera che compare sul sito del Guggenheim Museum di New York, dove il quadro è conservato, ha riconosciuto nell’uomo in pigiama, così lo definisce la Lauf, un giocatore di rugby.
Dunque, perché l’opera non è stata intitolata I giocatori di rugby? Come ha osservato lo studioso americano Roger Shattuck in “The Banquet Years”, l’assenza di qualsiasi tipo di nozione di movimento in questo incantevole dipinto è data dalla mancanza di ombre.
Nonostante il cielo sia limpido, i protagonisti non proiettano alcuna ombra. Shattuck sottolinea inoltre, ironicamente, come i due giocatori in giallo abbiano i capelli biondi, mentre quelli in blu i capelli scuri, tutti hanno i baffi, ma i colori delle calze sono alternati.

Sebbene conosciuto come le douanier, Rousseau non era un doganiere, ma piuttosto un gabelou, un gabelliere, dal 1869 al 1895, non all’epoca in cui dipinse i Giocatori di calcio, verso la fine dei suoi anni, ma prima di diventare un pittore a tempo pieno. Era un uomo semplice, di bell’aspetto, amava le donne, un uomo corretto che non aveva mai commesso crimini. Un sofisticato naïf, un suonatore di violino, che avrebbe chiesto l’elemosina in strada per alleviare la propria povertà.
Nacque nel nord-est della Francia, nella stessa cittadina di Alfred Jarry, con cui divenne poi amico a Parigi. Guillaume Apollinaire lo ammirava e tesseva miti sulla sua vita, che andò in Messico con le truppe inviate da Napoleone III, che vide in Sud America quelle giungle che poi rappresentò nei suoi quadri, e che da soldato salvò da solo la città di Dreux durante la guerra franco-prussiana del 1871.
Una cena data in suo onore da Picasso nel 1908, l’anno di questo dipinto, è diventata un episodio ormai leggendario di quel periodo precedente la prima guerra mondiale quando Parigi era la culla dell’avanguardia pittorica del tempo.
Esponeva regolarmente nei saloni pubblici, e nonostante i suoi dipinti venissero spesso derisi, la sua Zingara addormentataè oggi uno dei quadri più ammirati del Museum of Modern Art di New York.
Ma perché era così ammirato? Perché Apollinaire, Jarry, Picasso, Braque, Jacob, Uhde, Delaunay, Vlaminck, Brancusi e più tardi anche Léger, Kandinsky e Beckmann vedevano l’opera di questo pittore della domenica tanto moderna? Sebbene abbia provato a dare una risposta a questo quesito, trovo difficilissimo farlo con quella stessa chiarezza, semplicità e sicurezza utilizzate da Rousseau nei suoi quadri e senza l’aiuto del gergo critico artistico.

È tanto difficile rispondere a questo quesito quanto è difficile essere sicuri di quale sia lo sport rappresentato nell’opera dell’artista francese.

Biografia

PHILIP RYLANDS | Direttore museale e storico dell’arte. Laureato in Storia dell’Arte presso il King College di Cambridge, nel 1981 consegue il dottorato di ricerca con una tesi sul pittore veneziano Palma Vecchio, pubblicato nel 1988 da Mondadori e nel 1992 dalla Cambridge University Press. Dal 1986 al 2017, è stato Direttore della Peggy Guggenheim Collection, museo d’arte moderna più visitato in Italia. Nel corso del mandato, Rylands si è occupato del restauro del palazzo, ampliando gli spazi espositivi per ospitare la collezione della Fondazione Solomon R. Guggenheim e le oltre 200 opere del lascito di Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof. Nel 1980, fonda  il programma di tirocinio della Collezione. Nel 1986, la Fondazione Guggenheim acquisì il padiglione degli Stati Uniti della Biennale di Venezia, e da allora la Collezione Peggy Guggenheim ha fornito supporto amministrativo e logistico alle mostre del Padiglione. Nel 2000, fonda la Guggenheim UK Caritatevole Trust. Attualmente, continua a curare occasionalmente mostre e insegna in diverse università internazionali.

Intervento di Paola Cattaneo

In questi drammatici giorni legati all’emergenza pandemica, il mondo intero è accomunato da un drammatico senso di paura come non accadeva dai tempi della seconda guerra mondiale. Anche allora, proprio come noi in questo periodo particolare, le persone coinvolte si ripromettevano di costruire un “mondo nuovo” alla fine dell’emergenza, un mondo migliore fatto di civiltà , di progresso e di fratellanza tra i popoli.Ebbene, nel 1960 questo si tradusse in realtà: il mondo si unì davvero sotto questi auspici, lasciando alla posterità una sorta di fiaba moderna, tutta da raccontare.

Questa vicenda comincia circa alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso ed è ambientata in Egitto, nazione che nell’arco di un centinaio di anni aveva quintuplicato la propria popolazione ma non riusciva a produrre abbastanza risorse per sfamarla.Di fronte a questa emergenza umanitaria la FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione, suggerì al governo egiziano di costruire una nuova diga sul Nilo per migliorare le condizioni di vita della popolazione. L’acqua prodotta dalla nuova diga infatti, avrebbe combattuto la siccità, promosso le coltivazioni e prodotto l’energia elettrica necessaria ad avviare l’industrializzazione del paese.

L’allagamento avrebbe creato un vero e proprio bacino, poi chiamato  lago Nasser, a coprire un’area di oltre 5000 chilometri quadrati nella regione della Nubia, innalzando il livello del Nilo di circa 60 metri. La soluzione proposta dalla FAO si rivelò adeguata alle necessità della popolazione egiziana, ma al contempo comportava la drammatica scomparsa di ben 24 monumenti, oltre a tutto quanto sepolto dalla sabbia e non ancora scoperto, che giacevano lungo il Nilo nell’area nubiana oggetto dell’allagamento.Le testimonianze dell’antica civiltà egizia sarebbero state sommerse per sempre, in cambio della salvezza della popolazione.

Una scelta impietosa che sia il governo dell’Egitto che quello del Sudan (i due stati su cui si estende la regione nubiana) non sapevano e non volevano affrontare nella sua drammaticità: fu così che decisero di rivolgersi all’UNESCO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, alla disperata ricerca di soluzioni tecniche (ed economiche) di salvataggio dei monumenti storici dall’allagamento.

Nel gennaio del 1960 iniziò la costruzione della grande diga di Assuan (chiamata in arabo l’Alta Diga) e l’8 marzo dello stesso anno l’allora Direttore Generale dell’UNESCO, il vicentino Vittorino Veronese, lanciò dalla sede di Parigi un accorato appello, il primo della storia, a TUTTE le nazioni del mondo, invitandole a mettere a disposizione uomini, conoscenze e mezzi per salvare le testimonianze di un’antica civiltà.

Ecco le parole scelte da Veronese in questa storica occasione:

«Meravigliose strutture, considerate tra le più stupefacenti della terra, sono in pericolo di scomparire sotto le acque. La diga porterà fertilità a grandi estensioni di deserto; ma l’apertura di nuovi campi ai trattori, la previsione di nuova energia per future industrie, comporta il pagamento di un altissimo prezzo. (…) Non è facile scegliere tra il patrimonio del passato e il benessere presente di un popolo (…) non è facile scegliere tra templi e raccolto. (…) Questi monumenti, la cui perdita potrebbe essere tragicamente vicina, non appartengono solamente ai paesi che li custodiscono. Il mondo intero ha il diritto di vederli durare nel tempo. Essi sono parte di un comune patrimonio che comprende il pensiero di Socrate e gli affreschi di Ajanta, le mura di Uxmal e le sinfonie di Beethoven. Tesori di valore universale sono chiamati alla protezione universale. Quando una cosa bella, il cui valore aumenta anziché diminuire quando viene condivisa, è perduta, allora tutti noi siamo ugualmente perduti.(…)».

Una causa così nobile non merita niente di meno che una generosa risposta. É quindi con grande fiducia che invito governi, istituzioni, fondazioni pubbliche e private e  uomini di buona volontà, ovunque si trovino, a contribuire al successo di questa impresa senza eguali nella storia. Abbiamo bisogno di competenze, mezzi e denaro. Sono infiniti i modi in cui tutti possiamo aiutare.

La risposta all’appello dell’UNESCO fu una sorta di miracolo: furono 122 le nazioni che aderirono all’impresa, il sostegno giunse da istituzioni pubbliche e private ma anche da semplici cittadini, studenti, insegnanti da ogni parte del mondo; perfino i bambini organizzarono delle collette per aiutare. I mezzi di comunicazione internazionali, radio, televisione e stampa, si unirono spontaneamente per contribuire al successo della campagna.Erano trascorsi appena 15 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, una carneficina che non aveva risparmiato neanche il patrimonio storico artistico delle nazioni, in gran parte colpito dai bombardamenti.

John Fitzgerald Kennedy, all’epoca Presidente degli Stati Uniti, così rispose all’appello:

«Gli Stati Uniti, una delle civiltà più giovani, hanno molto rispetto per lo studio di culture passate e interesse per la conservazione di uno dei più grandi traguardi dell’arte e del pensiero. Raccomando quindi che ora ci uniamo anche noi alle altre nazioni attraverso l’UNESCO nel prevenire quello che altrimenti sarebbe un’ irreparabile perdita per la scienza e la storia culturale dell’umanità tutta».

Da tutto il mondo partirono alla volta della Nubia 30 spedizioni archeologiche (per l’Italia le Università di Torino, Milano e Roma) per compiere nuovi scavi e per documentare i monumenti destinati all’allagamento. L’UNESCO inviò l’architetto italiano Piero Gazzola, già Soprintendente del Veneto Occidentale ed esperto in restauro dei monumenti, a compiere la ricognizione di tutti e 24 i templi lungo il Nilo e di studiarne le possibili tecniche di salvataggio. Tranne tre piccoli templi che andarono perduti, la campagna di Nubia salvò, nell’arco di vent’anni,  le straordinarie testimonianze dell’antica civiltà egizia lungo il Nilo, dai templi di Philae fino allo splendore di Abu Simbel (al cui salvataggio ebbe un ruolo determinante l’impresa di costruzioni italiana IMPREGILO) e i risultati  degli scavi archeologici accrebbero enormemente le nostre conoscenze scientifiche dando un grandissimo impulso all’Egittologia.

Nel 1979 “I monumenti della Nubia da Abu Simbel a Philae” sono stati riconosciuti dall’UNESCO come un “museo a cielo aperto” e dichiarati Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Nelle sue raccomandazioni ICOMOS, il Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti UNESCO, dichiarò:  

«Il successo della campagna che fu lanciata al mondo attraverso l’Unesco, basterebbe da sola a provare (se ce ne fosse bisogno) che questi monumenti sono “di fatto” percepiti come patrimonio dell’umanità intera».

Questa grande impresa ha davvero cambiato il mondo,dimostrando l’importanza della solidarietà tra le Nazioni e il vantaggio di una responsabilità condivisa nella conservazione del patrimonio universale. Oggi, anche noi dovremo essere protagonisti di una “grande impresa” e anche noi potremo farlo attraverso il patrimonio mondiale che comprende, come da Convenzione UNESCO del 1972, anche il patrimonio naturale. Temi quali la solidarietà tra le Nazioni e la responsabilità condivisa ora vanno applicati alla conservazione del nostro pianeta, del nostro meraviglioso patrimonio mondiale naturale, delle sue limitate risorse, del suo fragile equilibrio.

Tocca a noi, questa volta, scrivere una nuova fiaba moderna che le future generazioni potranno, con gratitudine, ancora raccontare.

Biografia

PAOLA CATTANEO | Architetto e Chartered Architect presso il RIBA, The Royal Institute of British Architects dal 2011. Membro dell’ARB, Architects Registration Board di Londra. Realizza progetti di architettura contemporanea e di restauro conservativo. E’ docente a contratto in materia di beni culturali presso l’Istituto Universitario CIELS di Padova.

Intervento di Stefano Raimondi

Vorrei raccontarvi la storia di un incontro, di una mostra e di un’opera a cui sono particolarmente legato, che ha segnato l’inizio di una bella amicizia e insegnato il valore di un artista. Erano i primi giorni di novembre 2015, e per il secondo anno consecutivo avevo la fortuna di essere ospitato a New York da Andrea Mastrovito, artista tra i più generosi che abbia conosciuto. Una settimana dedicata a frequentare gli studi d’artista che mi venivano segnalati da curatori di musei, galleristi o che avevo già concordato in precedenza.

Tra gli artisti che avrei voluto incontrare c’era Rashid Johnson, di cui era in corso una mostra personale al Drawing Center. Purtroppo era stato molto difficile nei mesi precedenti mettersi in contatto con lui a causa dei diversi impegni che lo attendevano, tra cui una ampia mostra a Mosca, nel noto museo “Garage Museum of Contemporary Art” che si sarebbe aperta nel marzo 2016, quindi a pochi mesi di distanza. Poco prima di partire per New York, alla GAMeC di Bergamo, museo presso cui lavoravo come curatore da alcuni anni grazie a Giacinto di Pietrantonio, si era aperta la possibilità di realizzare una mostra nello Spazio Zero e così è nata l’improbabile idea di chiedere a Rashid di organizzare una mostra in pochi mesi.

Mando l’ennesima mail il 28 ottobre e Alex Ernst, la bravissima assistente di Rashid mi conferma l’appuntamento per mercoledì 4 novembre 2015 alle ore 15.00 al Drawing Center. Durante l’attesa ero molto ansioso, forse perché la mostra presentava una serie bellissima di disegni della ormai celebre serie Untitled Anxious Men. La gestualità di Untitled Anxious Men è talmente evidente e ossessiva da far pensare a un raptus, un accanimento, una danza performativa che l’artista compie facendo emergere il dipinto nello spazio del suo studio. Ricordo bene il grande sorriso e saluto che Rashid fece all’addetta del museo quando entrò, stemperò subito la tensione che mi ero creato. Iniziammo a chiacchierare come se ci conoscessimo da tempo, delle sue opere, della sua famiglia, del suo amore per la poesia.

Dal Drawing Center al bancone di un bar, dove lui prese un the caldo e io un’acqua frizzante. Proposi senza troppi preamboli l’idea di fare una mostra insieme. “Sure, When?” rispose lui, “ February” feci io. “Good, we have more than one year to work on it” pensò e disse Rashid. Quando gli dissi che non sarebbe stata dopo quindici mesi ma dopo tre ebbe un piccolo sussulto, probabilmente stava pensando che ero matto a chiedergli una cosa del genere. Mi feci forza e provai a spiegargli perché avrebbe avuto senso fare quella mostra, di come vedevo il suo lavoro e che si, la mostra a Garage dopo poche settimane sarebbe stata bella ma sicuramente ci saremmo divertiti a fare la nostra insieme. Ricordo ancora che chiese di vedere la pianta dello spazio, che fortunatamente porto sempre con me, gli raccontai la storia della GAMeC e dello spazio – un ex monastero -, costruimmo la struttura della mostra in poco tempo e poi chiamò la sua galleria dicendo che voleva fare questo progetto.

Tra gli elementi che si ritrovano spesso nelle mostre di Rashid, un posto rilevante è riservato a varie tipologie di piante. L’utilizzo di questo “materiale” è particolarmente interessante in quanto non ha alcuna funzione decorativa e si allontana dalle forme e dai gesti di tutta la sua produzione. L’utilizzo delle piante rientra in quella pratica che l’artista stesso definisce “Hijacking of Domestic”, la quale può essere definita come: “memorializzazione del processo di appropriazione e ri-trasposizione dello spazio domestico”. Le piante sono elementi visivi che favoriscono la sensazione di venire accolti in un ambiente ospitale, mantenendo saldo il legame tra lo spazio esterno e l’immaginario famigliare. L’appropriazione e il dirottamento dei codici risultano così elementi funzionali al processo di metabolizzazione e amalgama di elementi antitetici quali interno e domestico, esterno e pubblico. Inoltre ciò che rende le piante così speciali è il fatto che respirino. La respirazione è l’elemento maggiormente vitale, nel senso letterale del termine, e probabilmente anche l’emanazione fisica più diretta dell’artista. Non un autoritratto ma proprio un sistema vivente che si impadronisce dello spazio e lo colonizza. Per questo motivo a Fatherhood è stato riservato il posto centrale all’interno della mostra.

La scultura è composta da una griglia tridimensionale di cubi d’acciaio di diversa grandezza. Le forme, svuotate, sono poste l’una sopra l’altra in modo da creare una gabbia, un’installazione totemica che richiama le strutture minimali di Sol LeWitt e le composizioni modulari di Carl Andre. Intesa come un organismo vivente, o una forma di psiche delocalizzata, la scultura straborda di piante domestiche e lampade per la coltivazione che ne favoriscono la sopravvivenza. Il respiro delle piante è il rumore di fondo dell’Universo di Rashid Johnson. Al curatore della mostra, che soffre di vertigini, è stato chiesto all’artista di prendersene cura e non c’è stato nulla di più bello che respirare solitario in quello spazio.

Biografia

STEFANO RAIMONDI | Classe 1981, è curatore, promotore d’arte e Direttore Artistico di ArtVerona. Dal 2010 è direttore del network culturale The Blank Contemporary Art con cui organizza annualmente il Festival d’Arte Contemporanea ArtDate e con cui ha curato le mostre personali di Nathalie Djurberg & Hans Berg, Eva & Franco Mattes, Jonas Mekas e Deimantas Narkevičius. È stato Curatore alla GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo dal 2011 al 2017, istituzione per la quale ha curato mostre personali di artisti internazionali come Cory Arcangel, Rochelle Goldberg, Rashid Johnson, Andrea Mastrovito, Ryan McGinley e Pamela Rosenkranz. Dal 2013 al 2017 ha curato Qui. Enter Atlas – Simposio Internazionale di Curatori Emergenti. Nel 2011 ha co-ideato BACO – Base Arte Contemporanea per la quale ha curato le mostre di Francesco Arena, Riccardo Beretta, Filippo Berta, Ettore Favini, Oscar Giaconia, Daniel Knorr, Jacopo Miliani, Israel Lund, Navid Nuur, Adrian Paci, Dan Rees e Guido Van Der Werve. Dal 2015 al 2017 è stato docente all’Accademia di Belle Arti di Verona. È membro dell’IKT – International Association of Curators of Contemporary Art.

Intervento di Fabrizio Paperini

Il primo incontro che ho avuto con un’opera che ha tracciato un solco lungo il mio cammino nel mondo dell’arte fu a Bagheria nel 1999 visitando una mostra di Salvatore Scarpitta presso la Civica Galleria. In quegli anni frequentavo l’Università a Pisa sotto gli insegnamenti di un grande maestro, il professore Fabrizio D’Amico; stavamo studiando l’arte a Roma nel dopoguerra e dunque avevo già conosciuto, se ben in maniera ancora superficiale, il lavoro di Salvatore Scarpitta. Nel percorso di Bagheria m’imbattei in una tela dal titolo ‘Sul limite e oltre’, datata 1956; per me fu folgorante vedere dal vero un passaggio concreto dalla pittura alla lenta ed inesorabile fuoriuscita dalla tela stessa, una leggera estroflessione sembrava condurre alle tensioni che di lì a poco arriveranno nell’arte di Salvatore con la serie degli ‘Extramural’ e i ‘Senza titolo’ a partire dal 1958.

Nel 2005 ebbi modo d’incontrare Salvatore a Milano, mi ricordo il suo sguardo fiero e penetrante, la sua voce ferma e la sua gestualità da capo indiano. Parlammo di molte cose, mi ricordo in merito alla serie dei ‘Feral Runners’ e da come nacque l’idea di realizzarli, la relazione tra l’aggressività umana comparata a quella animale e il ritorno all’uso pittorico con l’utilizzo di bitumi e smalti. Ci soffermammo sulla sua grande passione per le auto e la velocità, era un incanto ascoltarlo, i suoi schizzi giovanili nella riproduzione di quei primi bolidi luccicanti, la sequenza di omaggi ai suoi eroi moderni della velocità: da Ernie Triplett a Harry Hartz da Frank Lockhart a Rajo Jack.

Questa passione portata all’estremo nelle sporche piste di sperdute contee americane dove un unico errore fatale poteva portare alla morte, la tensione e la forza di vita trasparivano ancora dagli occhi del gigante Sal. Proprio quest’anno abbiamo avuto il piacere di ospitare alcune opere di Salvatore Scarpitta presso gli spazi della Galleria Continua a San Gimignano. Per me è stata una grande soddisfazione vedere in dialogo Salvatore con le sculture di un’artista di fama internazionale quale Berlinde De Bruyckere ed una serie di opere d’arte antica all’interno del programma intitolato ‘Evergreen’. L’artista invitata a prendere parte alla prima edizione di Evergreen è Berlinde De Bruyckere. Grazie alla collaborazione con le gallerie Bacarelli-Botticelli, Robilant Voena e Montrasio Arte, le sculture dell’artista belga incontrano nelle sale di Galleria Continua i dipinti di Francesco Botti (Firenze, 1645 – 1711), Piero Dandini (Firenze, 1646 – 1712), Johann Karl Loth (Monaco di Baviera, 1632 – Venezia, 1698), Onorio Marinari (Firenze, 1627-1716), Giuseppe Petrini (Carona, 1677 – 1755/9) e un corpo di opere degli anni Sessanta dell’artista Salvatore Scarpitta (New York, 1919 – 2007).

Biografia

FABRIZIO PAPERINI | Studia Storia dell’Arte all’Università di Pisa. Da quindici anni lavora per Galleria Continua, con base principale a San Gimignano, occupandosi soprattutto  di produzione, rapporto con gli artisti e vendite, presenziando alle più importanti fiere d’arte internazionali.  E’ una delle colonne portanti della galleria, dopo i 3 soci fondatori.

Intervento di Massimiliano Tonelli

Se devo provare ad individuare qualcosa che abbia segnato la mia vita e il futuro nel settore dove poi ho lavorato e continuo a lavorare da 20 anni e più, mi viene in mente un viaggio che ho fatto con mio padre, alla fine degli anni ’90. Al tempo ero uno studente, non di Arte o di discipline affini ma semplicemente di comunicazione a Siena, un indirizzo che in quel periodo andava molto di moda. Allora non sapevo bene come indirizzare questo concetto nella comunicazione, tuttavia quel viaggio in Belgio fu determinante. Partimmo in treno, percorrendo le città più belle, come Bruges, Gand con l’obiettivo di andare a vedere una mostra importante su Antoon Van Dyck ad Anversa, sua città natale, dove si celebravano i 400 anni dalla nascita del grande pittore. Il viaggio durò circa una settimana. Visitando un museo al giorno, ne approfittai per guardare le esposizioni non soltanto dal punto di vista culturale, ma anche comunicativo. Iniziai ad osservare le didascalie, la grafica delle locandine, la presentazione, la presentazione dei primissimi siti web.

Tornato in Italia, iniziai a scrivere qualcosa su questo mondo e su questi contenuti che avevo avuto modo di approfondire. Non scrivevo ancora per testate giornalistiche specifiche sul mondo dell’arte, sebbene avessi iniziato a collaborare con alcuni giornali culturali locali della città di Siena. Da quel momento decisi che mi interessava approfondire quell’argomento dal punto di vista giornalistico. Quindi intrapresi diverse collaborazioni in giro, iniziai a scrivere, passando da un giornale ad un altro. La passione divenne nel tempo un lavoro a tutti gli effetti. Per anni è stata un’attività fatta per piacere e per passione che si è poi strutturata e trasformata in un lavoro, fino ad oggi. Pensiamo che era il 1999, un altro millennio. Sono passati 21 anni. Se mi chiedeste di indicare il punto in cui ho trovato la chiave per fare tutto quello che ho fatto successivamente, probabilmente il punto è quello. Un viaggio, una visita insistente ad alcuni musei, fatta ed approcciata nel momento preciso in cui quel tipo di tematiche si sposava bene con quello che stavo studiando quando ero all’università.

Tornando a quel 1999, guardandolo dal 2020, confinati nella clausura di questo periodo, quando paradossalmente non si può viaggiare, ci si rende conto che gli stimoli vanno trovati in altra maniera senza spostarsi. Per me è sempre stato fondamentale, per qualsiasi tipo di idea abbia avuto o innovazione che abbia provato ad attuare. Sempre cruciale il tema del viaggio e il fatto di essere decontestualizzati rispetto ad una realtà stabile. In questa settimana tutto ciò va trovato in maniera molto più virtualizzata per quanto possibile.

Biografia

MASSIMILIANO TONELLI | È laureato in Scienze della Comunicazione all’Università di Siena, dal 1999 al 2011 è stato direttore della piattaforma editoriale cartacea e web Exibart. Ha moderato e preso parte come relatore a numerosi convegni e seminari; ha tenuto docenze presso centri di formazione superiore tra i quali l’Istituto Europeo di Design, l’Università di Tor Vergata, l’Università Luiss, l’Università La Sapienza di Roma ed è professore a contratto allo IULM di Milano. Ha collaborato con numerose testate tra cui Radio24-Il Sole24 Ore, Time Out, Formiche. Suoi testi sono apparsi in diversi cataloghi d’arte contemporanea e saggi di urbanistica e territorio. È stato giurato in svariati concorsi di arte, architettura, design. Attualmente dirige i contenuti di Artribune e del Gambero Rosso.