A Rimini un contenitore medievale d’arte contemporanea

Nel centro storico di Rimini, due maestosi edifici medievali ospitano la collezione d’arte contemporanea donata alla comunità della Fondazione San Patrignano. All’interno degli ambienti dei contigui palazzi, il duecentesco Palazzo dell’Arengo e il trecentesco Palazzo del Podestà, si trova oggi il PART, Palazzi dell’Arte di Rimini, con una variegata raccolta di oltre sessanta opere di affermati artisti internazionali in costante espansione. Tra questi, opere di Vanessa Beecroft, Pier Paolo Calzolari, Damien Hirst, Carsten Höller, Emilio Isgrò, Agnes Martin, Michelangelo Pistoletto, Mario Schifano, Ettore Spalletti, Francesco Vezzoli, Velasco Vitali e molti altri.

Una collezione eterogenea nata non da un gusto individuale bensì dal desiderio di donare qualcosa alla comunità e per essa. A riguardo, come non menzionare l’imponente installazione site-specific di David Tremlett, realizzata con l’aiuto dei ragazzi della Comunità San Patrignano, impegnata nel recupero dalla tossicodipendenza. Il dipinto murale, visibile varcando le antiche porte del Palazzo, è un chiaro omaggio ai colori delle architetture circostanti, simbolo di storia e tradizione della città romagnola. Un lavoro definito “scultoreo” che non solo si integra, ma ne “sostiene la storia.” Non solo un mero contenitore, al PART, le architetture medioevali dei palazzi sono in dialogo aperto con le opere contemporanee.

Il restauro dei palazzi, che offre oggi uno spazio espositivo di oltre 1770 metri quadrati, non è stato un progetto di facile attuazione, sia per l’intento di mantenere intatta la struttura e la natura degli edifici preesistenti che per l’ecletticità delle opere contenute. Il percorso museografico non è scandito da precisi percorsi curatoriali, bensì la fruizione del suo contenuto è lasciata libera al visitatore. 

Esemplare progetto di recupero per mano pubblica e privata, il PART è la prima grande iniziativa italiana di “endowment”, un modello di stampo anglosassone attraverso cui le opere della raccolta sono state donate alla Fondazione San Patrignano con atti che impegnano la Fondazione stessa a non alienarle per un periodo minimo di cinque anni, contribuendo alla loro valorizzazione attraverso la condivisione con il pubblico. Il “tesoretto” che la Fondazione ha voluto accantonare dal 2017, grazie anche ai regali di artisti, galleristi e mecenati come Miuccia Prada, potranno essere cedute successivamente solo in caso di esigenze straordinarie della Comunità.

Palazzo Monti a Brescia. La nobile residenza d’artista

Un palazzo storico del 1200 convertito a residenza per artisti e designer internazionali. Siamo a Brescia all’interno del suggestivo Palazzo Monti, lanciato nel marzo 2017 dal giovane collezionista Edoardo Monti classe 1991, un incubatore di creatività e produttività che offre agli artisti la possibilità di trovare ispirazione e creare collaborazioni.

Il progetto nasce nel 2016 a New York, dove lavorava nel campo della comunicazione per la casa di moda di Stella McCartney, famosa stilista che firma gli abiti della duchessa del Sussex e di celebrità internazionali. Afferma in un’intervista “Il lavoro non mi soddisfaceva e soffrivo nel non poter partecipare attivamente al mondo dell’arte, di cui frequentavo artisti, curatori e galleristi. La passione per l’arte è nata grazie al collezionismo, ma è proprio l’esperienza americana ad averla consolidata e strutturata.”

E’ così che nel 2017, di ritorno in Italia, da vita ad una residenza artistica all’interno del palazzo storico di famiglia, acquistato negli anni ’50 da suo nonno e in cui nacque sua madre. “Dopo mesi di ricerca e di organizzazione del programma artistico e del piano di lancio del progetto su piattaforme digitali (specialmente Instagram) –, ho lanciato la residenza di Palazzo Monti in maniera indipendente, senza vincoli con gallerie, musei o altre istituzioni, pubbliche o private.”
Decorato con affreschi neoclassici della fine del 1750, Palazzo Monti offre un ambiente stimolante per creare arte contemporanea. All’interno, 18 camere affrescate raggiungibili dalla grande scalinata in marmo e pietra lasciate spoglie per consentire agli ospiti la libera creazione. Molti dei lavori di design realizzati sono frutto di commissioni o di collaborazioni con artigiani della zona.

Il programma di residenza è gratuito ed aperto a tutti gli artisti internazionali, selezionati in forma anonima dal Consiglio, i cui membri lavorano per alcuni dei più prestigiosi musei newyorkesi – il Guggenheim Museum, il Whitney Museum of American Art, il Jewish Museum, il Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum – e piattaforme digitali – Instagram, dove è stata lanciata la prima open call, Artsy, Twitter e Tumblr. 
Dalla sua apertura, Palazzo Monti ha accolto centinaia di artisti, provenienti da 50 paesi e impegnati praticamente in qualunque settore si possa immaginare, ospitando mostre personali e collettive, ma anche concerti, spettacoli, cene e visite in studio. All’interno del Palazzo è inoltre possibile visitare la collezione privata di Edoardo Monti, frutto anche di progetti espositivi non legati agli artisti in residenza.
Oggi Monti è vip relations manager di ArtVerona, fiera d’arte contemporanea e moderna che si tiene a Verona e docente del corso per heritage managers promosso all’Università Iulm di Milano.

Una nuova casa museo a Verona a Palazzo Maffei

Nel 2020, pochi giorni prima del lockdown che ha condizionato tutto l’anno a seguire, ha inaugurato nel centro storico di Verona un nuovo importante progetto artistico. Il 2021 dovrebbe finalmente rendere merito e dare visibilità a questo affascinante spazio.  Un restauro ambizioso di uno dei palazzi storici  più conosciuti della città da un lato, dall’altro l’esposizione permanente di una notevole e vasta collezione privata di arte.
Palazzo Maffei rappresenta una quinta suggestiva di Piazza delle Erbe, con una facciata barocca riconosciuta da tutti i veronesi, un imponente scalone elicoidale autoportante, gli stucchi e le pitture murali del piano nobile. La facciata dell’edificio necessitava di un generale intervento di manutenzione. Il progetto ha dato luogo a un “riordino” generale, finalizzato alla rimozione quando possibile degli effetti nefasti del tempo e dello smog. L’intervento conservativo ha coinvolto anche gli apparati decorativi delle sale del Piano Nobile di Palazzo Maffei ed è stato contenuto e rispettoso. Il restauro ha interessato anche i soffitti decorati, gli affreschi, le decorazioni in stucco, gli elementi lapidei del Salone Centrale.

Il palazzo è diventato la casa della Collezione Carlon, che si è fatto carico del restauro. Un percorso eclettico che spazia dalla fine del Trecento fino ad oggi, con oltre 350 opere. Un focus importante sulla pittura veronese. La passione per il Futurismo italiano e la Metafisica. Capolavori dell’arte moderna e contemporanea e i grandi maestri del XX secolo: da Picasso a De Chirico, da Magritte a Fontana, Burri e Manzoni. Una “doppia anima”, tra antico e moderno, in dialogo tra le arti: pittura, scultura, arti applicate e architettura. La collezione si snoda in 18 sale, terminando con le proposte più attuali con Pistoletto, Cattelan, De Dominicis, Erlich, Nannucci.

Luigi Carlon, oggi ottantaduenne, è il fondatore dell’industria chimica Index, ed ha fatto un grande regalo alla città arricchendo il patrimonio artistico veronese. Palazzo Maffei è stato da lui acquisito anni fa, con l’idea di esporre il risultato di 50 anni di collezionismo. Presiede la Fondazione Carlon Palazzo Maffei, diretta dalla figlia Vanessa. Al Giornale dell’Arte ha detto: “Casa Maffei è un progetto che cullo da anni perché fin dal primo stipendio ricevuto da giovane ho cercato di investire nella conoscenza dell’arte e nell’amore per il bello”.

Palazzo Maffei – Casa Museo è un’iniziativa culturale promossa da Luigi Carlon su progetto architettonico e allestitivo dello studio Baldessari e Baldessari e da un’idea museografica di Gabriella Belli, con contributi scientifici di Valerio Terraroli e Enrico Maria Guzzo.

Arte, alto artigianato e moda nella villa seicentesca Foscarini-Rossi

Non lontano da Venezia, una delle più conosciute ville della Riviera del Brenta (tra le quali la Malcontenta, Villa Pisani, Villa Widmann) è Villa Foscarini-Rossi, complesso architettonico secentesco che sorge a Stra. Venne costruita in stile Palladiano su commissione di Andrea ed Alvise Foscarini e completata nel ‘700. Gli aristocratici Foscarini, per dare prestigio al casato com’era usanza, chiamarono i migliori architetti (Vincenzo Scamozzi, Francesco Contini e Giuseppe Jappelli) pittori e decoratori (Pietro Liberi e Domenico de Bruni) per compiere l’impresa. La famiglia, d’altronde, aveva dato alla Serenissima un Capitano da Mar e un Doge. Fu infatti il Procuratore Marco Foscarini ad essere eletto Doge nel 1762, ma la villa ospitò altri personaggi rilevanti quali Gaspare Gozzi e Luigi Negrelli. La tradizione popolare racconta che ancor oggi, nelle notti di solstizio d’estate degli anni che terminano con lo zero e con il cinque, si possa sentir vagare il fantasma di Emma, nobildonna veneziana che vi soggiornò per alcune settimane. La villa ha anche un vasto parco con pregiate sculture.

La Riviera del Brenta è anche un importantissimo distretto calzaturiero, formato da più di 500 aziende che impiegano circa 10.000 addetti e producono complessivamente 19 milioni di paia di scarpe in media, la gran parte per l’esportazione. Le aziende sono specializzate nella progettazione e produzione di calzature da donna di lusso e collaborano con i più importanti brand del lusso. Luigino Rossi, che lanciò con i fratelli a fine anni ’40 la Rossimoda, oggi parte del Gruppo LVMH, è uno degli imprenditori chiave del distretto. Oggi proprietario del complesso, decise all’inizio degli anni ’90 di creare all’interno di Villa Foscarini (da allora Villa Foscarini Rossi) un Museo della Calzatura, esponendo i pezzi più rappresentativi creati dall’azienda nel corso della sua attività. La struttura è stata inaugurata il 24 giugno 1995, anniversario dei cinquant’anni di attività dell’azienda.

Il Museo della Calzatura raccoglie una collezione di oltre 1500 modelli di calzature femminili di lusso (realizzati con brand quali Pucci, Calvin Klein, Dior, Fendi, Kenzo, etc.). Oltre a raccontare il percorso imprenditoriale della famiglia Rossi e i rapporti intessuti dall’Azienda con le più grandi case di moda, ha il compito di testimoniare i saperi del territorio, di diffondere la conoscenza della tradizione calzaturiera della Riviera del Brenta e di documentare l’evoluzione del costume e della moda nella seconda metà del Novecento. Il Museo, inoltre, ospita eventi di vario genere: organizzazione di mostre temporanee, concerti, presentazione di libri, visite guidate in costume d’epoca.

Luigino Rossi è anche uno stimato e appassionato collezionista di arte moderna e contemporanea. Uno dei più importanti collezionisti di Andy Warhol, per esempio. Incursioni di arte contemporanea si trovano spesso all’interno della Villa, e parte della collezione è posta in visione.  L’accurato restauro, voluto da Rossi negli anni ’90, che ha valorizzato le purissime linee architettoniche e gli importanti affreschi, fu portato avanti con l’intento di rendere il complesso – villa e foresteria – vivo così come era stato pensato e voluto dai nobili Foscarini. Ad esempio, valorizzando il vasto salone di 170 mq che può ospitare fino a 300 persone. Un sogno realizzato per Luigino Rossi, mecenate e calzaturiere, nominato Commendatore dal Presidente della Repubblica Italiana nel 1991.

Un vecchio silo nella provincia Bolognese e più di 2000 opere: Museo Magi ‘900

Un vecchio silo degli anni Trenta, a Pieve di Cento, piccola cittadina emiliana sulle rive del Reno, ospita da alcuni anni una delle collezioni private di arte più vaste d’Italia. Parliamo di più di 2000 opere, messe assieme in maniera curiosa, appassionata e trasversale da Giulio Bargellini in quasi cinquant’anni di attività.
Negli anni Settanta l’imprenditore porta la sua azienda Ova Bargellini ad una posizione di leadership in Europa nel settore delle luci di emergenza. Ma è proprio in quegli anni, racconta, che un amico gli propone l’acquisizione di due disegni di Tono Zancanaro, che esponeva in una personale a Cento: visitò la mostra, conobbe l’artista con il quale fece amicizia, e da lì cominciò la passione per il collezionismo.

Il museo MAGI ‘900 apre le porte nel 2000, ed è una sintesi del rapporto arte/imprenditoria fin dal primo sguardo. Si presenta come un edificio squadrato e severo, un riadattamento da un vecchio edificio industriale. Si tratta di un silo, scelto da Bargellini “per tutelare e valorizzare un edificio in grave stato di degrado, ma di grande valenza simbolica per la comunità locale e per la storia agraria della provincia bolognese”. Il progetto di conversione, seguito dall’architetto Giuseppe Davanzo, preservò il più possibile il volume del silo costruendo un secondo corpo di fabbrica composto da un ampio basamento e da una nuova torre vetrata con cui dare accesso alla reception, agli spazi per gli uffici, alla caffetteria e al bookshop e agli spazi espositivi. Le pareti esterne della ‘nuova scatola’ sono dipinte con una texture pittorica a forte dominante blu: da lontano appare compatta, avvicinandosi diventa materica e mutevole. Dopo il primo nucleo inaugurato nel 2000, il museo è stato ampliato una seconda volta tra il 2005 e il 2006, annettendo un nuovo volume al corpo scala esterno, e una terza volta nel 2015, costruendo un nuovo edificio di tre piani fuori terra e un’ampia terrazza panoramica.

Il focus delle collezioni è sull’arte del XX e XXI secolo, con nomi come Afro, Alviani, De Chirico, D’Orazio, Jenkins, Modigliani, Parmiggiani, Santomaso, Shimamoto, Wesselmann, solo per citarne alcuni. Negli anni, poi, Bargellini dà vita a progetti temporanei ambiziosi. Nel 2008 chiede a Shozo Shimamoto di dare vita ad una delle sue grandi performance, durante la quale, sotto gli occhi di un folto pubblico, l’artista a tempo di musica lanciò con forza e casualità diversi contenitori di colori su una lunga distesa di tele e sculture di teste, secondo la poetica Gutai. Nel 2018 ospitò la mostra Guernica Icona di Pace, con il cartone raffigurante l’opera capolavoro di Pablo Picasso da cui è nato l’arazzo esposto all’ingresso della sala del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (dopo esposto a Padova grazie alla Fondazione Alberto Peruzzo, per il 100mo anniversario dell’Armistizio della Prima Guerra Mondiale).

In riferimento al rapporto tra arte e imprenditoria, del quale è stato uno dei primi interpreti, Bargellini affermò a Collezione da Tiffany “Il collezionismo ha cambiato il rapporto con la mia clientela, la passione per l’arte mi ha portato ad avere maggior prestigio e a migliorare la mia immagine pubblica, e quindi anche quella dell’azienda. Lo dico senza falsi pudori, la passione per l’arte per un certo periodo mi è davvero servita nel mio lavoro. Sono stato un inventore, in diversi ambiti, compreso questo. Adesso che il museo è il mio impegno principale sono sempre più convinto di avere conciliato bene lavoro e passione”.

Un palazzo storico a Palermo proiettato al futuro

In uno dei più bei palazzi nobiliari di Palermo, Palazzo Butera, affacciato sulla famosa via Kalsa, da un paio di anni trova spazio un ambizioso progetto/laboratorio sulla identità europea, che usa l’arte come leva e come stimolo.  Acquistato nel 2016 da Massimo e Francesca Valsecchi, il palazzo ha ospitato i viaggiatori del Grand Tour, re d’Europa, Nelson e Guglielmo II ed è stato oggetto, dal momento dell’acquisizione, di un complesso restauro coordinato dai nuovi proprietari: un intervento integrale, strutturale e artistico, e un progetto architettonico e museografico, con l’intenzione di aprire il bene monumentale alla fruizione pubblica.

I lavori sono ancora in corso, ma alcuni ambienti del palazzo sono stati inaugurati in occasione di Manifesta 2018. Al termine del progetto di recupero, il palazzo diventerà un laboratorio aperto alla città, che utilizzerà la storia, la cultura, la scienza e l’arte come catalizzatori di sviluppo sociale. Al piano terra, ci sarà una biblioteca di consultazione, spazi per le esposizioni temporanee e per le attività didattiche rivolte agli studenti delle scuole e delle università. Il primo piano rimarrà di fruizione privata e verrà sviluppato un progetto di casa-museo, mentre il secondo piano nobile sarà aperto al pubblico. Artisti, curatori e personalità della cultura potranno essere ospitati nella foresteria, dove potranno lavorare a progetti di ricerca per le mostre e le attività che si tengono nel palazzo.

Le collezioni d’arte di Massimo Valsecchi e Francesca Frua De Angeli, che troveranno posto a palazzo, attualmente in gran parte si trovano in prestito al Fitzwilliam Museum di Cambridge e all’Ashmolean Museum di Oxford. Le raccolte rappresentano i vertici della produzione artistica di diverse epoche storiche e di varie culture, anche con finalità educative e per comprendere le differenze culturali.

Massimo Valsecchi, ex broker e docente di storia del design industriale, ha dichiarato “Vorrei che Palazzo Butera diventasse un punto di contatto tra Palermo e l’estero, una cosa che adesso non c’è”. Insiste sullo spazio aperto, sul coinvolgimento della città e dell’università. Obiettivo è generare innovazione sociale attraverso l’arte, la storia, la cultura. Una delle idee, ad esempio, è creare una scuola per tappezzieri. L’incontro di culture ha a che fare con il tema dell’immigrazione: “Ho scelto Palermo per questo. L’immigrazione è un problema che non si risolve, i siciliani lo gestiscono da secoli, hanno l’accoglienza nel Dna, sono una sovrapposizione, una sovrapproduzione di culture, dai fenici alle decine di lingue che oggi si sentono parlare a Ballarò”. Con la vendita per venti milioni di euro di un solo dipinto, “Versammlung”, di Gerhard Richter, Valsecchi è quasi riuscito a finanziare l’intera operazione di restauro di Palazzo Butera.

Marco Giammona, coordinatore generale dei lavori di restauro, ha detto ad Artribune: “Dopo avere ospitato un ufficio regionale e un istituto scolastico, negli ultimi decenni il palazzo è stato utilizzato come sala ricevimenti, usi che hanno portato alla formazione di stratificazioni e a manomissioni che hanno alterato la struttura originaria dell’edificio. L’eliminazione di queste stratificazioni è stata tra gli step fondamentali del restauro. I lavori sono stati condotti da oltre un centinaio di operai che hanno lavorato sotto l’attenzione e il grande senso estetico del committente, insieme a una squadra di architetti, ingegneri, geometri, artigiani. Sono stati fatti anche interventi contemporanei che assolvono alla nuova destinazione d’uso del palazzo, ovvero un tempio della bellezza che Valsecchi metterà a disposizione del pubblico”.

Infine: «Le tre bandiere che chiudono i pannelli sul lato, senza retorica, che scendono non sbandierate, con semplice gestualità all’angolo, come fossero un getto di colore, come se fossero fiori. Penso che le bandiere hanno anche in questo caso, come i fiori che ha usato in certi lavori e sulla scena in teatro, un significato di nobile lutto. Ha voluto essere estremamente sobrio perché ha sempre tenuto ferma in mente l’occasione per la quale stava lavorando e il grande rispetto per i tre professori a cui era dedicato questo suo “affresco”. Non ha mai derogato a questa regola, ed ogni volta che ha partecipato ad una commemorazione ci si è avvicinato con grande delicatezza. Lo fece per il pittore Mario Mafai che fu un suo professore e per il quale gli fu chiesto di collaborare ad una mostra. Fece un semplice gesto, mise al muro una serie delle sue lamiere di ferro con delle mensole nude sulle quale appoggiò semplicemente, uno accanto all’altro, i quadri di Mafai, come prenderlo in braccio e nient’altro. Mafai diceva che la sua era una generazione del “dopo- dopoguerra“ e Jannis ne condivideva lo spirito, per questo il suo frammento nasce necessariamente dopo una tragedia, ma ha un compito positivo, è innamorato del frammento che restituisce in un attimo il sapore di un’unità perduta e ne conserva in seme le regole della ricostruzione».

 

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Dove le colline si colorano d’arte

Custoditi nelle colline delle Langhe piemontesi, si trovano alcuni degli esempi più significativi di uno dei maestri dell’arte contemporanea. E’ proprio in questi splendidi luoghi collinari, patria del buon vino, che l’inglese David Tremlett, ha dato vita ad opere site-specific permanenti dalle differenti tonalità cromatiche e forme geometriche.
La Cappella della Santissima Madonna delle Grazie a La Morra, conosciuta come la Cappella del Barolo, è sicuramente uno dei progetti più conosciuti dell’artista, in tema di recupero e valorizzazione del territorio circostante.
Costruita nel 1914 come riparo per gli agricoltori dal maltempo e per conservare le attrezzature agricole; la Cappella non fu mai consacrata. Dopo anni di abbandono, è diventata uno degli edifici più famosi delle Langhe grazie alla famiglia Ceretto, che nel 1999 affida il recupero agli artisti concettuali Sol LeWitt e David Tremlett. Il risultato, un connubio perfetto tra il suggestivo paesaggio delle colline e vigneti e l’estro degli artisti, che hanno saputo ricreare un gioco di colori dalle tonalità vivaci all’esterno, firmato da Sol LeWitt, e dalle tonalità più tenue e serene all’interno, per mano di Tremlett.

Alcuni anni dopo la Cappella di La Morra, l’artista è coinvolto nel recupero della Chiesa della Beata Vergine del Carmine a Coazzolo, in provincia di Asti, edificata alla fine del XVII. L’edificio, di oltre 300 metri quadrati di superficie, è inserita nella splendida cornice delle colline del Moscato. La caratteristica tecnica dell’artista suddivide la superficie in tre zone, ognuna caratterizzata da un colore dominante che rispecchia le tonalità dell’ambiente circostante.

Sempre in territorio piemontese, a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, affresca la cappella sconsacrata dell’ex-complesso cistercense di San Maurizio; oggi struttura ricettiva a cinque stelle della catena Relais & Chateaux. Il recupero, che celebra i 400 del monastero, avviene nel pieno rispetto del luogo. Le pareti interne sono affrescate con sfumature di colore e forme geometriche che si fondono con quelle della Cappella e che esprimono la relazione tra segno e architettura tipiche della sua opera.

Lo stesso Tremlett ha dichiarato che l’evoluzione del colore impiegato deriva dall’amore che ha per l’Italia e per il territorio della Langhe: «In Italia, sono stato circondato dagli affreschi di Giotto, Piero della Francesca, Mantegna […]. Ero immerso nel colore e sentivo di dover cambiare il mio modo di disegnare». 
E ha spiegato: «La prima volta che ho visitato la Cappella di Relais San Maurizio, ho riscontrato che la volta del WHITE SPACE (nome originario dello spazio espositivo) non aveva alcun collegamento con le sue pareti. Qualcosa non aveva senso. Ora, invece, la parte superiore dell’opera ha una connessione con la struttura della volta, il colore e la forma. La parte inferiore dell’opera costituisce ora la base, la fondazione o il luogo su cui tutto si sostiene ed è circondata tutt’attorno dal colore, dalla luce e dall’aria. In mezzo c’è il nostro orizzonte, questo è il nostro OPEN SPACE».

Ma la sua produzione artistica non si ferma in nord Italia. In Toscana, il piccolo borgo medievale di Ghizzano, in provincia di Pisa, è vero e proprio museo a cielo aperto. Qui, le case dei suoi 350 abitanti, sono state trasformate seguendo una sinfonia di colori che richiamano la tonalità della natura circostante “per portare il paesaggio toscano all’interno della strada.”, afferma l’artista.
Recentemente a Bari Tremlett ha realizzato un wall drawing permanente che riqualifica lo storico complesso monumentale di Santa Chiara e San Francesco della Scarpa. Il progetto, legato allo speciale rapporto dell’artista con la città in cui è stato ben 27 volte, e da qui i 27 grandi elementi colorati che decorano la superficie dell’edificio, omaggia la città di Bari ed è dedicato alla gallerista Marilena Bonomo, scomparsa nel 2014.

Treviso, un nuovo centro culturale dedicato al contemporaneo

Mentre l’emergenza sanitaria ha messo in difficoltà molte delle realtà culturali, Treviso, oggi, si appresta ad aprire le porte di un centro sperimentale nel cuore della città. Il progetto, che ha luogo a Ca’ Robegan, in quella che un tempo era la sede del Museo delle Arti applicate, mira ad incentivare lo scambio tra arte e impresa, come motore di contaminazione e di condivisione di idee.
Un’iniziativa ambiziosa e innovativa che nasce dalla partnership tra istituzioni – il comune di Treviso, il Dipartimento di Management dell’Università di Ca’ Foscari, leader in Italia per la ricerca e la didattica sulle relazioni tra arte, impresa, cultura ed economia, TRA Treviso Arte e Ricerca, associazione culturale impegnata da anni nella divulgazione dell’arte contemporanea nel territorio trevigiano – e il mondo delle imprese locali.
Ca’ Robegan diventerà il luogo di riferimento per la città e il suo territorio, mettendo in relazione imprenditori culturali e aziende nella creazione di nuovi progetti e processi.

«Ca’ Robegan sarà non solo sede di mostre, ma un cantiere aperto dedicato al contemporaneo e alle Arti applicate. Un laboratorio vivo nel quale gli artisti applicano il loro sguardo e i loro linguaggi all’economia e le imprese possono beneficiare del potenziale innovativo che la creatività applicata può scatenare» ha dichiarato il sindaco di Treviso Mario Conte.
Destinatari principali del nuovo centro sperimentale trevigiano saranno dunque «da un lato manager e imprenditori che avranno l’occasione di approfondire le potenzialità della collaborazione concreta con professionisti dell’arte e della cultura e, dall’altro, gli operatori culturali che potranno conoscere le opportunità di una relazione strategica con il mondo dell’impresa».

Il tutto attraverso un ricco programma di formazione in partenza in autunno, con workshop e convegni sull’arte contemporanea; mostre, previste da marzo, con una prima grande esposizione a cura di Carlo Sala, sul rapporto tra l’arte contemporanea e lo sport; settore nel quale il territorio trevigiano ospita alcuni tra le più importanti aziende e brand mondiali.
L’approccio tra arte e impresa sul territorio trevigiano non ha inizio esclusivamente con il progetto a Ca’ Robegan. Da anni, il Dipartimento di Management ha avviato una serie di scambi e relazioni, portando il linguaggio artistico direttamente nei luoghi di produzione.
Come la recente iniziativa SMATH, progetto che ha permesso la copertura di sei residenze d’artista in altrettante imprese del Veneto, con l’obiettivo di applicare linguaggi artistici differenti ad aziende eterogenee.
Protagonisti del progetto: Kensuke Koike, visual artist giapponese per Contarina spa (Spresiano, Treviso); il collettivo di artisti digitali D20 Art Lab per Electrolux spa (sede di Susegana, Treviso), Špela Volčič , artista visiva e fotografa slovena, per Pane Quotidiano; Studio Tonnato (Venezia) per  F/Art (Preganziol, Treviso), Teoria&Preda per Gv3 Venpa spa (Dolo, Venezia); Alessio Ballerini e Simona Sala (Ancona/Torino) per la coop sociale Verlata (Villaverla, Vicenza).

Non si parla più di mera sponsorizzazione, di collezionismo o di filantropia applicata al mondo dell’arte, bensì di un nuovo modo di concepire la cultura aziendale stimolando nuove visioni strategiche.«’pensare artisticamente’ contribuisce a renderle anche più competitive» Sostiene Fabrizio Panozzo, Docente di Management dell’Università Ca’ Foscari: «La condivisione della cultura aziendale con l’incontro con gli artisti crea il contesto per pensare fuori dagli schemi e va quindi visto come un investimento in innovazione».

L’arte, quindi, non entra nelle imprese come solo intervento decorativo, ma per generare sinergie e sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Un nuovo modo di “produrre” brand identity attraverso la contaminazione di competenze differenti.

A Firenze, in un ex convento una collezione del XX secolo e un “duello” con gli artisti contemporanei

La sede è quella dell’antico Spedale delle Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella a Firenze. Si tratta di un antico complesso conventuale fiorentino sorto alle origini del XIII secolo sulla sede di una preesistente chiesa del IV secolo e fu conosciuto anche come Spedale di San Paolo dei Convalescenti. Fu inizialmente un ospizio per pellegrini, divenuto nel 1345 anche un ospedale. Nel 1780, l’ospedale fu chiuso definitivamente e divenne sede di una delle quattro Scuole Leopoldine di Firenze volute dal Granduca per estendere l’istruzione delle giovani fiorentine.

Alla fine del XX secolo il Comune decise di riqualificare il complesso per fini culturali iniziando dal restauro del loggiato e proseguendo a successivi lotti. Il primo lotto fu terminato nel 2006 con l’apertura del Museo Alinari, e l’ultimo alla sistemazione del Museo Novecento aperto nel 2014. Oggi il Museo Novecento è dedicato all’arte italiana del XX secolo e propone una selezione di circa 300 opere distribuite in 15 ambienti.
Tra gli altri, sono rappresentati De Pisis, Depero, Casorati, Morandi, Severini, Vedova. Ma dall’arrivo nel 2018 del nuovo direttore, Sergio Risaliti, ha subito una grande trasformazione, aprendosi molto di più al XXI secolo.

Una delle novità principali è l’intensa attività espositiva che si apre al contemporaneo per far riscoprire la collezione permanente. Con il ciclo DUEL che rimanda al duello dialettico tra artisti contemporanei e il patrimonio civico museale. Duel coinvolge curatori ospiti a collaborare con artisti attivi sulla scena internazionale per scegliere un’opera del museo e dialogare con essa. Nel 2019 Goldschmied & Chiari hanno sviluppato un intervento sull’idea del “doppio”, scegliendo il dipinto Demolizioni (1937) di Mario Mafai. Davide Balliano, sempre nel 2019, ha scelto la scultura Susanna di Arturo Martini per costruire un suo intervento sul tema dell’attesa (con pitture, sculture e fotografie). In corso vi è la mostra ‘Routes’ di Elena Mazzi (Reggio Emilia, 1984) che ha scelto tre opere della collezione (Guttuso, Sironi, Prampolini) che si struttura come un immaginario viaggio che dalla Sicilia attraversa l’Italia e conduce in Islanda e poi in Cina, suggerendo diverse possibili traiettorie.

Un altro formato espositivo originale lanciato da Risaliti è THE WALL che si presenta sotto la forma dell’elaborazione visiva tipica dell’infografica su una parete lunga 12 metri.  Questo ciclo racconta ciclicamente argomenti insoliti ed eccentrici con parole e immagini facilmente comprensibili e proponendo sempre nuove ipotesi di lettura ai visitatori del museo. Sempre su una parete lunga 12 metri si esprime OFF che intende allargare il discorso dell’arte alla partecipazione sociale per contribuire alla costruzione di un nuovo umanesimo, un progetto di arte pubblica che dal museo entra e invade la città in un gioco di rimandi, di andate e ritorni. La parete, dipinta con i colori della bandiera italiana, ospita periodicamente un’opera che si sintonizza sulle urgenze e sulle emergenze del nostro tempo. Dal 13 giugno, ‘Ho Fame’ di Paolo Canevari, si confronta con la realtà senza esserne un semplice commento. L’opera esposta viene riprodotta in contemporanea sulle pagine dei quotidiani locali oppure su manifesti di diverso formato nelle strade delle città. ‘Ho fame’ ha origine dai cartelli che affiancano tanti homeless per la strada: la scritta Ho fame tracciata in bianco, risplende sul parabrezza di una Rolls Royce nera. Si assiste a un evidente conflitto tra quel simbolo di ricchezza, la vettura, e la frase, un grido di povertà estrema, tra le parole e le forme. Ciò è particolarmente urgente per l’artista in un contesto di emergenza per gli artisti creato dalla crisi dovuta al covid19.
Tra le mostre proposte nella primavera 2020, il Museo del Novecento dedica  una monografica ad Allan Kaprow, famoso per essere stato il padre degli Environments e degli Happenings, e che ha posto le basi per una nuova concezione dell’opera d’arte, intrecciando arte e vita, e promuovendo un’idea di arte concettuale, utopica, spontanea.

La capacità di mettere a confronto l’arte del XX secolo, parte di una collezione permanente, con ciò che il contemporaneo esprime, sarà anche uno degli obiettivi della Chiesa di Sant’Agnese, una volta riaperta al pubblico. La chiesa è ancora in fase di restauro e la sua valorizzazione è parte del progetto della Fondazione Alberto Peruzzo.

Arte e drammaturgia all’ex oratorio: il San Lupo di Bergamo

Esistono luoghi destinati al culto che non aspettano di perdere la loro funzione per diventare spazi di espressione dell’arte contemporanea. Così ad esempio la Chiesa di San Fedele a Milano, che da decenni si è aperta all’arte contemporanea e pochi anni fa ha anche dato vita al Museo San Fedele.

Vi sono poi casi nei quali i luoghi ecclesiastici perdono la loro funzione originaria, ma rimangono gestiti da organizzazioni inerenti alla Chiesa e diventano ambiti di dialogo con l’arte contemporanea.  È il caso dell’ex oratorio San Lupo di Bergamo, spazio affascinante su due livelli realizzato nel XVIII secolo dall’architetto Ferdinando Caccia per la giovanile Confraternita della Morte. È gestito dalla Fondazione Adriano Bernareggi, strumento della diocesi di Bergamo, e si presenta come “particolarmente attenta alle ragioni specifiche che la cultura cristiana aspira a condividere con chiunque ricerchi con serietà il senso delle cose”.  Il direttore scientifico, don Giuliano Zanchi, dal 2007 dà vita all’ex oratorio ad un programma di mostre di alto livello, avendo ospitato nel tempo esposizioni di artisti come Jannis Kounellis, Vincenzo Castella, Andrea Mastrovito, Getulio Alviani, Giovanni Frangi, Claudio Parmiggiani.
In quest’ultimo caso si è scelto un artista che spesso si confronta con la dimensione religiosa – si pensi ad esempio alla realizzazione dell’altare maggiore nella cattedrale di Reggio Emilia -, e conosciuto per le sue Delocazioni, opere realizzate con la polvere, il fuoco e il fumo, in maniera leggera, allusiva ed evocativa.
In Parmiggiani l’approccio col sacro ha a che fare con la nostalgia, con qualcosa di forte che c’era e che l’uomo ha perso.

Nel caso di Kounellis, invece, i materiali sono grevi, visivamente molto presenti. In una installazione del 2009 all’Oratorio, l’artista allora vivente decise di esporre vecchi abiti sul pavimento della grande aula rettangolare, ovvero le spoglie mortali di persone che non ci sono più, e gli abiti sono praticamente tutti uguali, perché la morte accomuna tutti e annulla le differenze. Lo spazio di San Lupo è stato per lungo tempo utilizzato come ossario: proprio questo aspetto un po’ macabro ha offerto la giusta ispirazione all’artista di origine greca.
L’installazione era poi arricchita da un’enorme pesante croce di metallo arrugginito, che sovrastava il resto, dando una dimensione inequivocabilmente religiosa al tutto. Una sorta di atto unico di grande impatto e forza comunicativa, quasi drammaturgico.

Una delle ultime installazioni, nel 2019, è stata ad opera di Maurizio Mazzoleni che ha posizionato un prisma ottagonale monolitico, verticale, alto poco più di dodici metri, come archetipo della torre di Babele, costruendo la sua torre mattone per mattone, segno dopo segno, e ci ha stratificato memoria, esperienze, emozioni, inconscio.
L’appeal sinistro e particolare dell’Oratorio di San Lupo dimostra una grande attitudine al desiderio di ricreare spazi di un ascolto virtuoso e anche disinteressato fra la cultura cristiana e le migliori espressioni della cultura contemporanea.

Don Zanchi dice: «Penso che un atteggiamento di questo tipo non sia semplicemente un gesto di buona volontà. Appartiene al contrario proprio alla natura specifica di una cultura evangelica, perennemente animata dalla passione per l’uomo, capace quindi di ascoltarne la voce, la sensibilità, l’estetica, la cultura. Questo è un lavoro che il cristianesimo ha fatto in tutte le epoche».

Uno spazio di confronto, quindi, ed anche di ricerca e sperimentazione, che unisce anime che a volte sembrano inconciliabili, donando un ruolo nuovo a luoghi religiosi.