Intervento di Stefano Raimondi

Vorrei raccontarvi la storia di un incontro, di una mostra e di un’opera a cui sono particolarmente legato, che ha segnato l’inizio di una bella amicizia e insegnato il valore di un artista. Erano i primi giorni di novembre 2015, e per il secondo anno consecutivo avevo la fortuna di essere ospitato a New York da Andrea Mastrovito, artista tra i più generosi che abbia conosciuto. Una settimana dedicata a frequentare gli studi d’artista che mi venivano segnalati da curatori di musei, galleristi o che avevo già concordato in precedenza.

Tra gli artisti che avrei voluto incontrare c’era Rashid Johnson, di cui era in corso una mostra personale al Drawing Center. Purtroppo era stato molto difficile nei mesi precedenti mettersi in contatto con lui a causa dei diversi impegni che lo attendevano, tra cui una ampia mostra a Mosca, nel noto museo “Garage Museum of Contemporary Art” che si sarebbe aperta nel marzo 2016, quindi a pochi mesi di distanza. Poco prima di partire per New York, alla GAMeC di Bergamo, museo presso cui lavoravo come curatore da alcuni anni grazie a Giacinto di Pietrantonio, si era aperta la possibilità di realizzare una mostra nello Spazio Zero e così è nata l’improbabile idea di chiedere a Rashid di organizzare una mostra in pochi mesi.

Mando l’ennesima mail il 28 ottobre e Alex Ernst, la bravissima assistente di Rashid mi conferma l’appuntamento per mercoledì 4 novembre 2015 alle ore 15.00 al Drawing Center. Durante l’attesa ero molto ansioso, forse perché la mostra presentava una serie bellissima di disegni della ormai celebre serie Untitled Anxious Men. La gestualità di Untitled Anxious Men è talmente evidente e ossessiva da far pensare a un raptus, un accanimento, una danza performativa che l’artista compie facendo emergere il dipinto nello spazio del suo studio. Ricordo bene il grande sorriso e saluto che Rashid fece all’addetta del museo quando entrò, stemperò subito la tensione che mi ero creato. Iniziammo a chiacchierare come se ci conoscessimo da tempo, delle sue opere, della sua famiglia, del suo amore per la poesia.

Dal Drawing Center al bancone di un bar, dove lui prese un the caldo e io un’acqua frizzante. Proposi senza troppi preamboli l’idea di fare una mostra insieme. “Sure, When?” rispose lui, “ February” feci io. “Good, we have more than one year to work on it” pensò e disse Rashid. Quando gli dissi che non sarebbe stata dopo quindici mesi ma dopo tre ebbe un piccolo sussulto, probabilmente stava pensando che ero matto a chiedergli una cosa del genere. Mi feci forza e provai a spiegargli perché avrebbe avuto senso fare quella mostra, di come vedevo il suo lavoro e che si, la mostra a Garage dopo poche settimane sarebbe stata bella ma sicuramente ci saremmo divertiti a fare la nostra insieme. Ricordo ancora che chiese di vedere la pianta dello spazio, che fortunatamente porto sempre con me, gli raccontai la storia della GAMeC e dello spazio – un ex monastero -, costruimmo la struttura della mostra in poco tempo e poi chiamò la sua galleria dicendo che voleva fare questo progetto.

Tra gli elementi che si ritrovano spesso nelle mostre di Rashid, un posto rilevante è riservato a varie tipologie di piante. L’utilizzo di questo “materiale” è particolarmente interessante in quanto non ha alcuna funzione decorativa e si allontana dalle forme e dai gesti di tutta la sua produzione. L’utilizzo delle piante rientra in quella pratica che l’artista stesso definisce “Hijacking of Domestic”, la quale può essere definita come: “memorializzazione del processo di appropriazione e ri-trasposizione dello spazio domestico”. Le piante sono elementi visivi che favoriscono la sensazione di venire accolti in un ambiente ospitale, mantenendo saldo il legame tra lo spazio esterno e l’immaginario famigliare. L’appropriazione e il dirottamento dei codici risultano così elementi funzionali al processo di metabolizzazione e amalgama di elementi antitetici quali interno e domestico, esterno e pubblico. Inoltre ciò che rende le piante così speciali è il fatto che respirino. La respirazione è l’elemento maggiormente vitale, nel senso letterale del termine, e probabilmente anche l’emanazione fisica più diretta dell’artista. Non un autoritratto ma proprio un sistema vivente che si impadronisce dello spazio e lo colonizza. Per questo motivo a Fatherhood è stato riservato il posto centrale all’interno della mostra.

La scultura è composta da una griglia tridimensionale di cubi d’acciaio di diversa grandezza. Le forme, svuotate, sono poste l’una sopra l’altra in modo da creare una gabbia, un’installazione totemica che richiama le strutture minimali di Sol LeWitt e le composizioni modulari di Carl Andre. Intesa come un organismo vivente, o una forma di psiche delocalizzata, la scultura straborda di piante domestiche e lampade per la coltivazione che ne favoriscono la sopravvivenza. Il respiro delle piante è il rumore di fondo dell’Universo di Rashid Johnson. Al curatore della mostra, che soffre di vertigini, è stato chiesto all’artista di prendersene cura e non c’è stato nulla di più bello che respirare solitario in quello spazio.

Biografia

STEFANO RAIMONDI | Classe 1981, è curatore, promotore d’arte e Direttore Artistico di ArtVerona. Dal 2010 è direttore del network culturale The Blank Contemporary Art con cui organizza annualmente il Festival d’Arte Contemporanea ArtDate e con cui ha curato le mostre personali di Nathalie Djurberg & Hans Berg, Eva & Franco Mattes, Jonas Mekas e Deimantas Narkevičius. È stato Curatore alla GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo dal 2011 al 2017, istituzione per la quale ha curato mostre personali di artisti internazionali come Cory Arcangel, Rochelle Goldberg, Rashid Johnson, Andrea Mastrovito, Ryan McGinley e Pamela Rosenkranz. Dal 2013 al 2017 ha curato Qui. Enter Atlas – Simposio Internazionale di Curatori Emergenti. Nel 2011 ha co-ideato BACO – Base Arte Contemporanea per la quale ha curato le mostre di Francesco Arena, Riccardo Beretta, Filippo Berta, Ettore Favini, Oscar Giaconia, Daniel Knorr, Jacopo Miliani, Israel Lund, Navid Nuur, Adrian Paci, Dan Rees e Guido Van Der Werve. Dal 2015 al 2017 è stato docente all’Accademia di Belle Arti di Verona. È membro dell’IKT – International Association of Curators of Contemporary Art.