Fondazione Alberto Peruzzo, Bruno De Toffoli. L’Avventura spazialista, 2024-25. Foto: Ugo Carmeni

Lo spazialismo veneziano di Bruno De Toffoli

Il seguente articolo riprende il testo a cura di Sileno Salvagnini Bruno De Toffoli e la critica d’arte veneta nel secondo dopoguerra* che si propone di ripercorrere il contesto storico-artistico degli anni Cinquanta e Sessanta, nel quale si sviluppa lo spazialismo veneziano da cui emerge la figura di Bruno De Toffoli. 

Nel 1952, lo scultore De Toffoli risponde a una lettera pubblicata nel “Gazzettino – Sera” riguardo a un articolo di Guido Perocco, che lo definiva allievo di Alberto Viani. De Toffoli smentisce questa affermazione precisando che, pur apprezzando alcune correnti artistiche moderne, i suoi veri maestri sono scultori come Arp e Brancusi, ma non il citato Viani. Dalla lettera emerge una certa acrimonia verso Perocco nonostante il critico avesse elogiato De Toffoli in passato, suggerendo la sua partecipazione alla Biennale di Venezia.

Partendo dalla sua produzione degli anni Quaranta, durante gli studi all’Accademia di Venezia, si può notare che le sculture di De Toffoli risentono dell’influenza di Arturo Martini, pur indagando un approccio più spaziale; si pensi ad esempio ad opere come Composizione, del 1949, che dimostra il suo interesse per la scultura che si fonde con lo spazio. La sua evoluzione stilistica, distante dalle tradizioni scultoree del periodo, potrebbe così spiegare il desiderio di distaccarsi da Viani, molto apprezzato in quel momento.
La carriera all’Accademia segnerà un cambiamento significativo nel percorso artistico di De Toffoli, con un miglioramento del suo stile e l’influenza di nuovi maestri, come Venanzo Crocetti. A conferma di ciò, dal diploma dello scultore emerge un rifiuto verso il periodo in cui aveva lavorato con Martini e Viani, preferendo riferimenti più moderni come quelli di Alexander Archipenko.

Nel 1954, la scultura Eternità della macchina di De Toffoli fu esposta alla Galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo, a Venezia, e per la prima volta alla Biennale dello stesso anno, insieme ad altre sue opere come Azione delle verticali e Attimo nello spazio. Nonostante fossero tutte realizzate in gesso, queste sculture vennero collocate nel giardino della Biennale, scelta che si giustifica con la carenza di spazi interni e la percezione che le opere di un giovane artista potessero essere ‘sacrificate’ all’aperto. Questo approccio evidenziò una certa differenza tra De Toffoli e scultori più affermati come Viani, le cui opere invece furono ospitate nelle sale interne della Biennale. La scelta di esporre le fragili sculture di De Toffoli all’aperto sollevò discussioni riguardo ai danni che il gesso avrebbe potuto subire, come evidenziato da Roberto Longhi e Rodolfo Pallucchini (membri della Sottocommissione per le arti figurative della Biennale). 

Le opere di De Toffoli suscitavano un misto di inquietudine e curiosità, distaccandosi radicalmente dalla scultura tradizionale e dalle scelte artistiche dei suoi contemporanei. Ad esempio, opere come Attimo nello spazio e Eternità della macchina presentano forme inusuali e provocatorie, lontane da qualsiasi riferimento iconografico precedente, con strutture che sembrano sfidare le convenzioni della scultura moderna. Questi lavori, seppur innovativi, furono inizialmente sottovalutati rispetto ad artisti più consolidati.

La seconda metà degli anni Cinquanta rappresenta un periodo di grande fermento per l’arte contemporanea in Italia: nel 1958, l’artista partecipò nuovamente alla Biennale di Venezia e questa volta le sue opere, come Metamorfosi, Genesi e Evento spaziale, vennero illustrate da Giampiero Giani, uno dei maggiori teorici in Italia di questa corrente nonché firmatario di numerosi manifesti, che ne riconobbe le potenzialità a partire dal rifiuto di De Toffoli di adeguarsi alla scultura dell’epoca, e ne esaltò l’originalità della ricerca formale e spaziale, in cui luce e vuoto diventano elementi essenziali.
Negli stessi anni venne pubblicata anche la rivista Evento, fondata a Venezia nel 1956, che diventò mezzo e punto di riferimento per il movimento spazialista. Questa rivista fu un luogo di riflessione critica sull’arte e la cultura, con contributi di intellettuali come Toniato, Rosada, e Ballo che sostenevano una visione dell’arte non come mera rappresentazione, ma come sintesi dinamica tra spazio, luce e forma.
Toniato, in particolare, nei suoi scritti su De Toffoli approfondì la nozione di scultura come fusione di pieno e vuoto, sottolineando l’autonomia dell’opera d’arte che non era più solo un oggetto statico ma un evento in continua evoluzione. Il concetto di “libertà” nelle sue sculture non significa casualità o astrattismo, ma libertà strutturale che trascende le convenzioni stilistiche.

La stagione, se così può essere definita, della produzione artistica di De Toffoli dopo la partecipazione della Biennale del ‘58 iniziò a evolvere; sempre più rara fu la frequentazione dello scultore alle varie occasioni espositive a causa del crescente impegno didattico al Liceo Artistico di Venezia, ma rimane comunque evidente come l’esperienza spazialista sia stata fondamentale per De Toffoli, tornando nei decenni seguenti in nuove declinazioni: disegni e raffigurazioni tramutati ora in ‘un’idea di città tecnologica’. Quella dello spazialismo di De Toffoli fu una stagione in grado di offrire una trasformazione nel campo della scultura. 

*S. Salvagnini, Bruno De Toffoli e la critica d’arte veneta nel secondo dopoguerra, in “Bruno De Toffoli. L’avventura spazialista, Fondazione Alberto Peruzzo, Padova, 2025.

Fondazione Alberto Peruzzo, Bruno De Toffoli. L’Avventura spazialista, 2024-25. Foto: Ugo Carmeni

Premio Barbara Cappochin. La sfida della qualità

La Fondazione Barbara Cappochin si impegna da sempre a far conoscere lo stretto legame tra la qualità della vita e quella dell’architettura, un connubio che può apparire insolito, quasi illogico, ma che si rivela in realtà concreto, profondo e imprescindibile. Questo principio guida il Premio di Architettura Barbara Cappochin, che si pone l’obiettivo di promuovere un’architettura di qualità, capace di integrare dimensione umana, rispetto per l’ambiente, utilizzo appropriato di materiali e un equilibrio tra estetica, funzionalità e sostenibilità.

Nel 2024, l’edizione del ventennale della Biennale Internazionale di Architettura Barbara Cappochin ha visto una straordinaria adesione con più di 300 opere provenienti da 33 Paesi di tutti i continenti, un incremento di oltre il 50% rispetto all’edizione precedente. Questo aumento significativo di partecipazione ha portato la Giuria internazionale a confrontarsi con una molteplicità di approcci e idee, valorizzando in particolare progetti capaci di esprimere inclusività, sostenibilità ambientale e rispetto per il contesto sociale e paesaggistico. Interventi che puntano a una conservazione funzionale degli elementi originari.

I premi assegnati hanno quindi valorizzato l’architettura che va a riqualificare e a ripensare i luoghi, talvolta abbandonati, per rimetterli in circolo, a disposizione della collettività.

In questo contesto, trova felicemente spazio, premiato con la seconda menzione d’onore del Premio Regionale, il restauro progettato dallo Studio Architetti Borchia Associati della ex Chiesa di Sant’Agnese, oggi sede della Fondazione Alberto Peruzzo. È stata apprezzata la realizzazione di un’architettura che ha consentito il riutilizzo dell’edificio a spazio museale privato, aperto alla città. Un intervento che ha saputo creare una nuova relazione con l’ambiente urbano e mantenere il rispetto per la struttura originale, reinterpretata con un linguaggio contemporaneo.

Leggendo le motivazioni della giuria relativamente alle realtà premiate saltano agli occhi parole significative come aggregazione, rispetto, partecipazione, inclusione, paesaggio, collettività, cohousing, uguaglianza di genere. Architettura come mezzo di empowerment, ovvero quale insieme di azioni e interventi mirati a rafforzare il potere di scelta degli individui e ad aumentarne le responsabilità, migliorando competenze e conoscenze.

La motivazione della giuria circa l’assegnazione della seconda menzione d’onore alla Nuova Sant’Agnese: 

Architettura consapevole. Il restauro della chiesa, in chiave culturale, è riconosciuto dalla giuria come un approccio corretto per un intervento nel centro della città di Padova. Un’architettura “misurata” che mira a riutilizzare l’edificio rispettando la struttura originale con un nuovo linguaggio e materiali contemporanei. Un’attenzione anche agli spazi aperti e al rapporto con la luce. Un progetto di restauro, tipico tema italiano e territoriale, finalizzato alla salvaguardia del disegno compositivo dei prospetti e della struttura esistente, attraverso il recupero conservativo e funzionale degli elementi architettonici e spaziali originari, nell’ottica di un intervento non invasivo e di ricucitura delle trasformazioni e degli inserti novecenteschi, con soluzioni che potessero in qualche misura valorizzare anche la discontinuità nell’uso dei materiali, nell’ottica di una nuova e moderna fruizione.

Un approccio strettamente legato alle sfide del presente, che punta a coinvolgere l’individuo nel miglioramento della relazione col territorio e la collettività. Una sorta di “etica applicata” alla progettazione che testimonia come le scelte per un futuro migliore siano davvero possibili. A testimoniare l’importanza di questa edizione, il Presidente dell’Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Padova Roberto Righetto ha sottolineato:

“È un orgoglio ulteriore avere proprio qui a Padova uno dei progetti assegnatari della menzione d’onore. Questo scenario mondiale di “architettura di qualità”, offerto dalla Biennale Barbara Cappochin, non può che essere di auspicio affinché possa generarsi una positiva contaminazione per il ruolo che l’architettura dovrebbe assumere nella società.”

A completare il percorso culturale, le migliori 40 opere internazionali e le migliori 10 regionali selezionate dalla giuria internazionale sono state esposte tra il mese di giugno e quello di luglio 2024 a Padova, in Piazza Cavour, sui tavoli dell’architettura progettati da Renzo Piano.

Esther Stocker, Uno scenario mentale, installation view, Nuova Sant’Agnese, 2023. Foto: Ugo Carmeni

La destrutturazione dell’ortogonalità di Esther Stocker

La ricerca di Esther Stocker, fin dai suoi esordi, ha utilizzato un elemento che contraddistingue la produzione artistica dalla metà degli anni Venti del secolo scorso: la griglia. Per Rosalind Krauss è un ingrediente essenziale del ‘mito modernista’ anche grazie alla sua “straordinaria longevità nello spazio specializzato dell’arte moderna”. Il dispositivo d’ordine basato sull’ortogonalità e nella sua più dichiarata evidenza (reticolo nero su fondo bianco, oppure la loro inversione) è ciò che caratterizza le tele dell’artista dalla metà degli anni Novanta, periodo durante il quale completava i suoi studi prima all’Accademia di Belle Arti di Vienna, poi a quella di Brera, e infine all’Art Center of Design di Pasadena.

La griglia può essere concepita come una sorta di grado zero dell’immagine pittorica, una sorta di sfondo da cui partire, o meglio ripartire, una volta si sia portata a compimento il lavoro di destrutturazione delle modalità di rappresentazione del mondo ‘esterno’. Le ripartenze sono state molteplici durante il corso del Novecento, la longevità di cui parlava appunto la Krauss, ma viene da chiedersi se ciò sia effettivamente dovuto all’essere la griglia un mito, se non il mito per eccellenza che attraversa l’arte del secolo scorso, oppure se vi sia qualcosa di non esaurito, di concretamente attingibile, in quel dispositivo che si affaccia anche negli anni duemila. Forse bisognerebbe esercitarsi fenomenologicamente, sospendendo il giudizio sul molto che si è praticato, visto e scritto intorno a quello sfondo ortogonale, per riconsiderarlo nella sua evidenza: un reticolo di relazioni formali primarie date dall’interazione fra linee e superficie, agerarchico, seriale, neutro.

La ricerca della Stocker, partendo da questo assunto, mette in campo due soluzioni: la prima, legata alla produzione di quadri di medie e grandi dimensioni, opera all’interno del sistema primario cui si è fatto riferimento, producendo moltissime varianti del medesimo sistema agendo sulle dimensioni dei riquadri e delle linee componenti griglia stessa, utilizzando poche tonalità di grigio, oltre alla diade già nominata, introducendo però delle alterazioni formali, senza venga mai del tutto meno il principio della ortogonalità. Il concetto di alterazione della regolarità è l’elemento discrasico introdotto dalla Stocker nel sistema a griglia,
le linee, o meglio le relazioni fra le parti entro una superficie data, non producono solo una, prevedibile, coincidenza (e ordine, rispetto alle stesse attese dell’osservatore), ma un imprevedibile e inatteso disallineamento, della geometrica struttura bidimensionale. Una sorta di ‘disordine’ programmato, quasi il sistema in fase di costruzione avesse ricevuto un urto, o avesse subito una sorta di effetto glitch, e le linee-relazioni non coincidessero più. La seconda soluzione proposta è molto coerente con le premesse bidimensionali: lo spazio tridimensionale, e non più la sola parete, diventa l’altro elemento che caratterizza
la ricerca dell’artista di origini alto-atesine. Stiamo parlando della produzione di ambienti grazie a complessi interventi installativi realizzati entro spazi soprattutto a vocazione museale o comunque aventi ricadute sulla sfera pubblica.

Si tratta di installazioni site specific che assumono le caratteristiche e le dimensioni del luogo espositivo come punto di partenza per generare installazioni concretamente immersive, dove lo spettatore si aggira all’interno di un sistema per un verso rigorosamente progettato e costruito e, per altro verso congelato e sospeso durante un processo interno di collassamento. Interventi site specific concepiti quali architetture altre paradossalmente rese possibili proprio dalle strutture funzionali, e istituzionali, ideate dagli architetti.

Nel progetto proposto per la navata della ex-chiesa di Sant’Agnese gli elementi caratterizzanti la ricerca di Stocker si ritrovano tutti, anche se si tratta di recenti e recentissimi sviluppi della sua produzione che portano ai limiti gli stessi presupposti di partenza. Ritroviamo il trattamento bidimensionale nei grandi quadri a parete, con la diade del bianco e nero, ma il processo di collassamento viene spinto fino alla completa dispersione del dispositivo d’ordine, generando una polverizzazione dei suoi elementi primari, riducendoli a variazioni di particelle quadrate in una spazialità che ha qualcosa di non terrestre, quasi si trattasse di una sorta di istantanea dello spazio cosmico nella sua evoluzione. Difficile non pensare, sempre a proposito della longevità della griglia, alle origini costruttiviste, e cosmiche, della forma quadrata. Dove però l’ortogonalità subisce un vero e proprio processo di radicale destrutturazione è nelle proposte volumetriche di Stocker, nelle concrezioni tridimensionali che costellano lo spazio della ex-navata distribuendosi a pavimento e sulle pareti, sorta di corpi satellitari in fase di contrazione dove ogni singola componente geometrica, l’imperitura griglia, principio compositivo per eccellenza basato su regolarità e ripetizione, viene sottoposta ad un processo di decostruzione che la disarticola, la comprime, la riduce poco più che a un resto senza però smentirne del tutto l’origine ordinativa, quasi l’architetto ancora una volta avesse sbagliato il suo progetto e gettato i foglimillimetrati in un abissale cestino. Viene così generandosi uno scenario dove convivono e collidono virtualità concettuale di uno spazio senza limiti e sua fisica concretezza, scenario all’interno del quale si muove sorpreso e disorientato il visitatore, come in un sogno di paradossale precisione.

Esther Stocker, Uno scenario mentale, installation view, Nuova Sant’Agnese, 2023. Foto: Ugo Carmeni

Orditi della razionalità, 2023. Foto: Ugo Carmeni

Il Museo Umbro Apollonio a San Martino di Lupari

Dedicato a Umbro Apollonio, una delle figure più prestigiose nel campo della critica dell’arte contemporanea, docente universitario nonché direttore dell’Archivio della Biennale di Venezia dal 1949 al 1968, il museo si ispira principalmente alla corrente artistica del Neo–Costruttivismo, una struttura singolare in Italia nella quale si contano oltre 150 opere di artisti di fama internazionale. Tra gli artisti della collezione troviamo: Alberto Biasi, Agostino Bonalumi, Julio Le Parc, Gaetano Kanizsa, Manfredo Massironi, Bruno Munari, Shizuko Yoshikawa, Jean-Pierre Yvaral, Jörg Glattfelder e molti altri.
Il Museo Civico d’Arte contemporanea “Umbro Apollonio” fondato nel 1981 dal Comune di San Martino di Lupari in provincia di Padova rappresenta l’atto conclusivo di una molteplicità di iniziative atte a divulgare l’arte contemporanea che presero il via dalla Biennale d’Arte Contemporanea di San Martino di Lupari promossa dal gruppo APL del comune e, in particolare, da Edoer Agostini, artista che a partire dagli anni ‘60 espose e collaborò con gli artisti appartenenti al Gruppo N, Gruppo T, GRAV di Parigi e il Gruppo Zero di Dusseldorf.

La Biennale, svoltasi dal 1971 al 1985, coinvolse i protagonisti dell’arte programmata e ottico-cinetica europea, sudamericana e giapponese, portando in tal modo la città natale dell’artista ai vertici dell’arte contemporanea internazionale. Un corpus di opere che si caratterizzano per la loro diversità nella tipologia e nella tecnica di realizzazione: dipinti, opere su carta e sculture realizzate con tecnica mista e l’impiego di una molteplicità di materiali che si discostano radicalmente dalla tradizione. 
In questo stesso periodo, la stessa città di Padova sarebbe diventata uno dei maggiori centri di diffusione di rilevanti sperimentazioni artistiche nell’ambito della percezione, design e le nuove tecnologie di allora, beneficiando degli studi specialistici della Scuola di psicologia della percezione, fondata nel 1919 all’Università di Padova e rinomata per l’apporto di maestri quali Cesare Musatti, Vittorio Benussi e Fabio Metelli. 

Tra i più conosciuti, il Gruppo N nasce a Padova nel 1959 come associazione Ennea ma trova il suo assetto definitivo nel 1960 e si inserisce all’interno della più ampia rete dell’arte cinetica e programmata italiana. Ne faranno parte Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi. Il collettivo presente alla mostra “Arte programmata” del 1962 radicalizza il concetto di lavoro di gruppo rifiutando il principio di autorialità ricercando una nuova forma d’arte innovativa ma a causa di forte componente etica politica e normativa il gruppo si separerà nel ‘66.

Grazie alle sperimentazioni nel campo della cinetica e della percezione che fanno di Padova assieme a Milano (Gruppo T) uno dei centri di maggiore diffusione in Italia dell’Arte Programmata degli anni ‘60-’70 oggi alla Fondazione Alberto Peruzzo, nell’ex chiesa di Sant’Agnese grazie alla collaborazione con il Comune di San Martino di Lupari, la Soprintendenza di Padova, Verifica 8+1 (Biblioteca VEZ di Venezia) e Giuseppina Agostini, è possibile visitare per la prima volta assieme alcune opere rappresentative del periodo in dialogo con altre opere parte della collezione della fondazione. 

Orditi della razionalità, 2023. Foto: Ugo Carmeni

Onirica (), fuse*, 2023, foto di Ugo Carmeni

Una sinfonia di mistero e stupore

Provo una profonda curiosità verso il meccanismo della percezione e su come questa complessa interazione tra sensi, cervello ed esperienze cognitive giochi un ruolo essenziale nel definire la nostra comprensione del mondo. In questo processo, le innovazioni tecnologiche e le scoperte scientifiche hanno da sempre occupato uno spazio significativo, spesso alterando in modo radicale il modo con il quale percepiamo la realtà, noi stessi e le relazioni con gli altri. Mentre in passato tali trasformazioni avvenivano gradualmente, seguendo ritmi più in sintonia con l’evoluzione della società e dell’individuo, ora la rivoluzione digitale accelera queste dinamiche come mai prima, rendendo più complesso trovare equilibrio tra l’impulso del progresso tecnologico e la ricerca di un autentico miglioramento del benessere, sia a livello personale che collettivo.

Ogni opera di fuse* esplora questi temi utilizzando diversi linguaggi artistici, sempre con il proposito di tessere nuovi legami tra persone e favorire riflessioni e dialoghi su concetti complessi, aprendo la strada a nuove prospettive e modi di vedere e comprendere. Onirica () si inserisce in questo percorso, con l’obiettivo di stimolare una riflessione su come le recenti evoluzioni dei sistemi di Intelligenza Artificiale stiano scrivendo un nuovo capitolo nella storia dell’interazione tra uomo e macchina: mentre la tecnologia si evolve rapidamente, il mio invito è quello di fermarsi a contemplare le implicazioni di questa evoluzione riflettendo sul ruolo della tecnologia nella nostra comprensione dell’umanità.

Le macchine possono riprodurre schemi e regole estendendo le possibilità creative del nostro pensiero, ma la capacità di generare intuizioni, empatia e comprensione profonda rimane una prerogativa umana. Sono convinto di questa affermazione, ma quando si ha a che fare con le tecniche più avanzate di Intelligenza Artificiale emergono spontaneamente una serie di affascinanti interrogativi sull’origine dell’intelligenza, della coscienza e dell’identità umana, aprendo la strada a nuove riflessioni sulla natura della mente. È interessante come siano queste stesse domande a spingere ricercatori, scienziati, filosofi e psicologi ad approfondire il processo del sognare e il ruolo di questa esperienza nel processo evolutivo della mente umana. È proprio da questa sottile connessione tra interrogativi comuni che è nata l’idea di realizzare un’opera che, attraverso l’uso esteso di tecniche di machine learning, trae ispirazione da un’esperienza prettamente umana: il sogno.

 

Onirica () diventa così una sinfonia di mistero e stupore, che ha accompagnato ogni passo del processo creativo. Siamo stati colti da un sentimento di sorpresa nel contemplare i flussi di immagini sintetiche emergere dal profondo del sistema. Abbiamo letto con stupore racconti onirici enigmatici, ci siamo imbattuti in allucinazioni sonore affidando i sogni ad attori artificiali. Durante questo viaggio abbiamo appreso l’arte del sussurrare istruzioni alle macchine, rimodulando il nostro linguaggio per permettere loro una comprensione più profonda. Le macchine stesse ci hanno risposto mettendo in luce i bias cognitivi e gli stereotipi radicati nella nostra società e rivelando i contorni di ciò che sono state addestrate a conoscere.

C’è un senso di mistero che ci avvolge mentre esploriamo questi ambiti e che ci spinge a scavare sempre più a fondo: siamo tutti affascinati dalla bellezza delle domande irrisolte e dai paradossi insiti nella natura umana. Il mistero poi si nutre dello stupore che si prova quando scopriamo qualcosa che va oltre le nostre aspettative, quando la nostra mente si allarga aprendosi a nuove prospettive e ci accorgiamo che la realtà è molto più vasta e sorprendente di quanto avessimo mai immaginato.

Credo che il significato intrinseco di Onirica () risieda nell’atto di condivisione di questo viaggio: un’esplorazione che ci ha portato a sondare alcune delle intricate connessioni tra l’esperienza umana e l’evolversi della tecnologia. Questo progetto mira ad accendere piccole scintille di curiosità nella mente del pubblico, stimolando  una ricerca e comprensione più profonda di una delle tecnologie che impatteranno maggiormente il nostro presente e il nostro futuro.

Onirica (), fuse*, 2023, foto di Ugo Carmeni

Jannis Kounellis al Bo. I bozzetti di Resistenza e Liberazione

Gli studi preparatori della grande installazione Resistenza e Liberazione, nel Cortile Nuovo del Bo, sono presentati oggi per la prima volta al pubblico presso la Fondazione Alberto Peruzzo. Si tratta di cinque fogli, attualmente conservati presso l’Archivio Generale di Ateneo, che sono stati spediti via posta al committente e ricevuti il 27 gennaio 1995. Essi consentono di ripercorrere le dinamiche dell’officina creativa kounellisiana. Con pochi tratti corsivi, dal sentore già fisico, l’artista mette in forma la sua visione e la elabora mirando a una struttura poderosa. Quattro fogli sono a matita, il quinto a china con limitati interventi ad acquerelli colorati. Nell’Archivio, separatamente dai bozzetti, ma probabilmente incluso nel plico che li conteneva, è presente una breve «descrizione del progetto» (in calce la firma a stampa dell’autore). Se ne riporta il testo completo:

Due sbarre di ferro verticali e parallele (tipo h), che si alzano dal pavimento alla soffitta [sic] e custodiscono all’interno tre aste con le bandiere semi arrotolate, legate fra loro con una corda marinara da una determinata altezza ad un’altra, ancora da stabilirsi, ed inserite nella cavità della h della sbarra. Sulla destra delle sbarre, una costruzione di legno, fatta di vecchie aste, anch’essa posta ad una certa altezza da stabilirsi, per ricordare la Cattedra di Galileo.

Rappresentazione appena abbozzata e con meno retorica possibile dei valori ideali di un’Italia nuova accostata al patrimonio riconoscibile (tramite la struttura di legno che vagamente si riferisce alla Cattedra di Gallileo).
Naturalmente, il modo di comporre, usando il ferro e il legno in questa maniera, appartiene alla mia esperienza artistica, ed è stata usata in varie occasioni per formalizzare il mio lavoro. Questi disegni, non dettagliati, contengono la struttura del progetto.

La fascinazione per la cattedra di Galileo è più che mai attiva nel bozzetto n. 1, che mostra una costruzione dove le tavole di legno sono disposte verticalmente, come quelle della cattedra. Questa è richiamata anche dalla progressione in altezza della struttura, da destra a sinistra, con il culmine simbolico della putrella contenente le bandiere italiane, con la differenza che Kounellis spezza in due livelli orizzontali l’obliqua che accompagnava il salire in cattedra. Il disegno presenta inoltre alcune annotazioni, di lettura risolvibile ma con qualche incertezza, anche perché non curate ortograficamente. A sinistra, l’indicazione «da alzare [?] al sofito» stabilisce l’altezza massima dell’opera, raggiunta appunto, nella prima concezione, solo dall’alloggiamento dei tricolori. È uno di due cenni molto vaghi, espressi dai bozzetti, che considerano la relazione con lo spazio, fattore fondamentale per Kounellis e per l’installazione di Padova in particolare, ma che ancora non può precisarsi in quanto la collocazione sarà stabilita solo in seguito al secondo e decisivo sopralluogo, avvenuto a metà marzo 1995 .

Sempre nel primo disegno, le altre scritte citano a uno a uno i materiali dell’opera, rivelando l’attitudine, tipica dell’artista, a rendere significativa la materia in sé. Si noti che i materiali sono quattro, numero che evoca le antiche ripartizioni degli elementi: in questo caso il «ferro», che è l’elemento possente e affidabile della trave (più precisamente acciaio nell’opera finita); le «3 bandiere», che sono colori e simbolo di un ideale; il terzo elemento è la «corda» di cui parla la descrizione del progetto ma poi espunta dalla realizzazione. Al proposito, prima di dire del quarto elemento, va notato che tutti e cinque gli studi, pur attestando ripensamenti notevoli, sono accomunati dall’idea della corda che si avvinghia alle bandiere in modo drammatico, avvolgendole in una spirale che richiama un nodo scorsoio. La corda è molto utilizzata da Kounellis tra gli anni Ottanta e Novanta, spesso per legare all’insieme componenti rigide, quali pietre o parti metalliche, esaltando così la forza celata nella natura morbida e organica del materiale. In questo caso la corda ha un significato ambiguo: è un qualcosa che si aggrappa con foga all’ideale e allo stesso tempo lo soffoca. Nell’opera finita le tre bandiere, con le loro aste di acciaio, sono semplicemente appoggiate alla putrella, una soluzione meno esuberante dal punto di vista espressivo ma efficace nel darsi come “grafia”: una sorta di freccia colorata, a imprimere il movimento ascendente che nel primo bozzetto è dato dai dislivelli della struttura.
Infine la scritta relativa al quarto elemento, la più ricca e circostanziata: «una paratia di lenio per ricordare la catedra di Galilio». L’elaborazione dell’artista muove dall’omaggio, esplicito e riaffermato in tutte le occasioni, al docente illustre e tragico dell’Ateneo, a colui che ha ben conosciuto il tormento sul cammino per la libertà.

Lo studio n. 2 ribadisce la medesima struttura, salvo il riquadro, di non facile interpretazione, che sta in alto a destra, là dove, nello studio precedente, le tavole lasciano spazio alla prima alzata. Dovrebbe essere questo il momento in cui l’artista decide di assorbirla in una parete di altezza uniforme, ma sempre più bassa della torre dei tricolori. Compare un’unica scritta, la seconda e ultima relativa alla collocazione, che prescrive una distanza di «60» centimetri a sinistra, non verificabile nella realizzazione.
Ben altri progressi sono attestati dal bozzetto n. 3, dove Kounellis ha innanzitutto ruotato le tavole sull’orizzontale, discostandosi dallo spunto galileiano e ritrovando il suo più proprio motivo della stratificazione, che infatti risulterà definitivo. Inoltre, concorre a rimandare a opere precedenti l’inserimento tra le tavole di piccole forme quadrate o circolari, probabilmente i frammenti eterogenei che l’artista ha già più volte sperimentato. Le scritte ribadiscono la poetica degli elementi: «ferro bandiere corda lenio» (seguito da una parola semicancellata dalla sottolineatura, forse «residuo»). Infine la spalliera lignea è ormai livellata in altezza, ma ancora sottostante alla trave di ferro.

Un dettaglio di quest’ultima, con l’indicazione della sezione a h, è oggetto del quarto studio. La trave continua a svettare accogliendo le bandiere, con il nodo in evidenza. Gli appunti ribadiscono i materiali di questa parte dell’opera («bandiere corda ferro»). Anche se il foglio n. 5 dà ancora risalto il viluppo di bandiere e corda, tanto più che è colorato, per il resto esso attesta finalmente la crescita ad altezza intera della parete di legno e la sua assimilazione a una barricata sgangherata. Rimangono alcune differenze rispetto all’opera finita: l’affastellamento non si spiana nella parte superiore e certi circoletti tra le travi forse ancora immaginano degli inserti oggettuali.

Il monumento, ma sarebbe meglio definirlo “anti-monumento”, è inaugurato il 29 maggio 1995. Accanto vi è collocata una piccola lapide che recita: «alla fede civile e all’azione di Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti, Ezio Franceschini e di quanti nell’Università seppero unire diversi ideali e culture in concorde lotta di popolo per riconquistare all’Italia la libertà». È la dedica dell’Ateneo ai professori che lo hanno fatto degno, nel 1945, della medaglia d’oro al valor militare per la guerra di Liberazione.

Uno spazio ritrovato. Opere storiche e contemporanee nella Nuova Sant’Agnese

La prima mostra raccontata da Riccardo Caldura, curatore della mostra e direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia

Riprendendo un’efficace metafora di Kounellis riferita alla sua concezione artistica – “credo che la mia più grande ambizione (per usare un paradosso) sia di diventare un ago per cucire tutto insieme” – anche il compito che ci si è dati per la riapertura della ex-chiesa di Sant’Agnese è stato quello di tenere insieme le varie componenti della storia del luogo e di prospettarne il prossimo futuro legato alle arti contemporanee. Quattro grandi opere del XVII e XVIII secolo, un tempo  parte degli arredi della chiesa, tre delle quali legate agli episodi della giovanissima martire cristiana a cui l’edificio era dedicato, sono state ricollocate nello spazio principale.

Esposte temporaneamente, in occasione della riapertura, due grandi lavori di Jannis Kounellis della serie degli “armadi”, presenti in numero nutrito in una delle ultime mostre concepite e realizzate dall’artista nel 2016. I due lavori di Kounellis dialogano con una rilevante opera dello stesso artista acquisita dalla Fondazione Alberto Peruzzo; opera che è chiamata a svolgere la funzione di fulcro espositivo, essendo collocata nell’area dell’ex-abside a indicare il passaggio fra i due ambienti che costituiscono ora lo spazio finalmente restituito alla fruizione pubblica.

Si tratta di un’opera drammatica composta da una trave in legno di quasi 4 metri, sospesa verticalmente su una doppia piastra in acciaio appoggiata su carboni, un sacco di iuta, il cui peso grava su un poggiapiedi, è trafitto da un lungo coltello. L’insieme richiama un tema non certo estraneo alla poetica di Kounellis: quello del martirio. Si genera di fatto una relazione con l’agiografia della martire adolescente, la cui gola venne recisa con un colpo di spada analogamente a come si sacrificavano gli agnelli e con le vicende tragiche di Sant’Eurosia, la pala di Giandomenico Tiepolo non legato alla storia di Agnese.

Nel secondo ambiente dello spazio è esposta una selezione di opere contemporanee di notevole rilievo della collezione Alberto Peruzzo, parte delle quali ascrivibili alla stagione dell’arte segnata dall’Informale, dalla sperimentazione su nuove materie e da nuove prospettive oltre la bidimensionalità. Ad altri autori non riferibili a quel periodo, le cui opere sono relativamente più recenti, è affidata la riconsiderazione della tematica della ritualità e della figura umana sospesa fra dolente interrogazione ed enigmatica presenza così da generare un’ulteriore tessitura di rimandi con le opere esposte nella sala principale.

Studio fuse*, Trust, 2022

Arte, scienza e tecnologia: una collaborazione tesa al futuro.

Cosa possiamo definire arte oggi e qual è il suo scopo? In quale modo tecnologia e scienza si inseriscono all’interno dello scenario artistico contemporaneo? 
L’arte nel tempo ha sempre assunto un ruolo fondamentale all’interno della società, quale espressione della contemporaneità, dove significati e funzioni attribuite ad essa nel corso della storia, da quelle celebrative a quelle innovative, sono sempre state espressione dei valori di una determinata comunità che viveva nel suo tempo. Punto di partenza dell’incontro è stato il concetto di “arte” che Marco Trevisan, infatti, ha voluto definire  quale «mediatore culturale da sempre in grado di semplificare concetti che risulterebbero talvolta complessi alla comprensione delle masse». 

Studio fuse* rappresenta un esempio tangibile di questa relazione tra arte, scienza e tecnologia e attraverso la realizzazione dei loro progetti cercano di «semplificare la complessità e concretizzare ciò che non ha ancora una forma». Alcuni progetti significativi, sintesi di questa relazione, realizzati da fuse* sono: Artificial Botany che nel prossimo futuro coinvolgerà anche l’Orto Botanico di Padova ed esplora la capacità espressiva latente delle illustrazioni botaniche attraverso l’uso di algoritmi di machine learning; un altro progetto è Trust il cui scopo è analizzare l’impatto degli eventi storici sul livello di fiducia della società fino al momento presente e considera come questa relazione potrebbe evolversi nel futuro.

Altri artisti come Daan Roosegaarde, che della creatività ha fatto il proprio capitale,  vede la possibilità di creare un futuro migliore attraverso l’impiego della tecnologia; ne sono la dimostrazione progetti come Waterlicht e Smog Free Tower. Un altro esempio è quello dell’artista Tomàs Saraceno che nel 2020 ha presentato una scultura volante dal titolo Fly with Aerocene Pacha; una mongolfiera che è riuscita a volare sopra le saline argentine attraverso il solo impiego di aria e luce del sole. Un progetto complesso che guarda al futuro, quasi un maniera utopistica, ad un mondo che esclude totalmente l’utilizzo dei combustibili fossili, batterie o pannelli solari. 

Una figura dell’artista che Vincenzo Trione definisce come “Neoscientista”, che si inserisce nel mondo e si relaziona con esso in maniera differente rispetto al passato perché la funzione stessa dell’arte è cambiata. Infatti, Marco Trevisan nel suo libro Ars Factiva. La bellezza utile all’arte in maniera quasi provocatoria pone l’accento sul significato che assumono le parole “bellezza e utilità” legate a quella di arte; non si parla più di un’arte fine a sé stessa quindi della sua «necessaria non autonomia oggi»; è così che l’arte entra in contatto con questi nuovi mezzi espressivi e diventano uno strumento di sensibilizzazione attraverso la quale ci parlano di tematiche legate ad esempio all’ambiente, al futuro e in generale della società nella sua complessità. Un’arte che Bruno Latour ha definito «estetizzazione della scienza e progetti di sensibilizzazioni necessari per il periodo storico in cui viviamo».

La rivoluzione digitale ha trasformato i comportamenti e le relazioni sociali e di conseguenza anche il ruolo dell’artista; oggi l’opera spesso è frutto di diverse professionalità e competenze che operano per raggiungere un obiettivo comune. Studio fuse* ne è un esempio, oggi il gruppo si compone di tredici personalità e professionalità diverse che provengono da studi ed esperienze diversificate. Diversi sono gli esempi che possiamo citare: Art al Cern di Ginevra, la residenza d’artista dove artisti e fisici lavorano in stretta collaborazione alla realizzazione di progetti e temi di pubblica utilità o la collaborazione tra Ouchhh Studio e Nasa per la realizzazione dell’installazione pubblica DATAGATE.

Altro esempio di intervento artistico a cavallo fra ricerca, dati e impegno sociale è stato il progetto Human Architecture (Biennale Architettura 2018) realizzato da Salvatore Iaconesi, Oriana Persico e il centro di ricerca Human Ecosystems Relations con la partecipazione della Fondazione Alberto Peruzzo. Il progetto consisteva nella raccolta di conversazioni pubbliche trasformandole in architetture visive e sonore, dove i dati sono stati il centro di un’azione culturale che intendeva coinvolgere la collettività. Da questo si evince non solo come siano cambiati i mezzi espressivi e il ruolo dell’artista ma anche come si sia passati da una condizione di individualismo creativo a una creazione collettiva, un’arte partecipativa che si completa con lo spettatore e ogni volta ne determina un’esperienza e risultato diverso.

In conclusione,  la “rivoluzione digitale dell’arte” ha portato a due trasformazioni essenziali: il modo di fare l’arte e il ruolo dell’artista. Tutti i giorni siamo chiamati a confrontarci con l’impiego delle nuove tecnologie in campo artistico ed è così che il confine tra arte, scienza e tecnologia diventa sempre più labile.

Link esterni

Studio fuse*, Trust, 2022

Statua di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, 1678, Palazzo Bo, Padova, Fotografia di Mauro Magliani

Magistra et doctrix philosophiae. La storia di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia

Il progetto, nato su proposta dell’Università di Padova in collaborazione con la Fondazione Alberto Peruzzo che ha realizzato un libretto commemorativo in occasione del restauro della statua di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, ha lo scopo di onorare la prima donna laureata, nell’anno dei festeggiamenti degli 800 anni dell’Università degli Studi di Padova. 

Il restauro non solo rappresenta un intervento volto alla conservazione e valorizzazione dell’opera di epoca seicentesca ma porta in sé un significato più rilevante. Un riconoscimento, quello a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, di un’istituzione da sempre sensibile e impegnata sul tema delle pari opportunità e uguaglianza di genere. 

Il monumento di Bernardo Tabacco

Nata il 5 giugno 1646 e scomparsa prematuramente all’età di trentotto anni, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia è stata protagonista di molteplici tributi con dedica alla prima  a magistra et doctrix philosophiae. A distanza di un mese dalle esequie  il procuratore Giovanni Battista Cornaro aveva già intrapreso contatti con i frati conventuali di Sant’Antonio per procedere alla realizzazione di un cenotafio dedicato ad Elena che fu portato a termine nel 1689. Una spesa ingente quella sostenuta per la realizzazione dell’imponente statua che all’epoca fu posizionata al posto del telero con Il Trionfo dell’Ordine francescano nella Basilica del Santo a Padova. La statua fu commissionata all’artista Bernardo Tabacco detto il “Bassanese” figlio di un linguaggio scultoreo proveniente da maestranze straniere come il fiammingo Giusto de Court.

Ad oggi non è stato ritrovato alcun disegno originale del monumento ma  Massimiliano Deza, nella seconda edizione di Vita di Helena Lucretia Cornara Piscopia (1692), ci restituisce un’accurata descrizione del cenotafio eretto in memoria della celeberrima magistra. L’utilizzo di due registri, diverse figure disposte su diversi livelli a simboleggiare verità e virtù e infine, al centro dell’ordine superiore, la statua di Elena a grandezza naturale ancor’oggi conservata. Un monumento che rappresenta la ricostruzione di una figura in termini mitico-celebrativi che per l’epoca rappresentava un’eccezione, tant’è che già nel 1679 i riformatori dello Studio inviarono una sanzione ai rettori di Padova affinché troncassero sul nascere le aspirazioni di altre laureate.

Nel 1727 a seguito di problemi economici della famiglia, Girolamo Baldissera (fratello minore di Elena) fu costretto a rinunciare ad alcuni beni di famiglia e il monumento dedicato alla sorella fu rimosso dalla Basilica del Santo; se ne prese cura una nobile donna anch’essa letterata , Caterina Dolfin moglie di  Andrea Tron, procuratore di San Marco e riformatore allo Studio, che pensò di collocarla all’interno dell’Università di Padova. Rimossa dal suo contesto d’origine rimane la scultura di una donna che permette di celebrarne la sua tenacia e intelligenza, una figura che abbatte da ormai più di tre secoli ogni forma di stereotipi di genere.

La storia di Elena

Nata fuori dal matrimonio, Elena fino ai diciotto anni ha vissuto uno status sociale per così dire “irregolare” e che per il padre della giovane donna all’epoca rappresentava quasi un’ossessione. Grazie al lascito di Girolamo Cornaro di un’ampia pinacoteca e collezione libraria corredata da strumenti matematici Elena ha avuto la possibilità di vivere in un ambiente prolifico dal punto di vista culturale. Il palazzo rappresentava dunque un luogo cruciale per gli scambi culturali frequentato da studiosi, viaggiatori illustri e circuiti accademici in quanto Giovan Battista (padre di Elena) era protettore dell’accademia dei Delfici.

Fin dalla giovane età Elena fu in grado di dimostrare una spiccata intelligenza e propensione agli studi, cosa che non si rivelò tale con il fratello maggiore Francesco che scelse un’altra strada. Al di fuori delle lezioni filosofiche portò avanti anche le consuetudini appartenenti all’educazione femminile dell’epoca, come il canto e la musica e ciò ci fa intuire la volontà da parte di Elena di ampliare la propria conoscenza su diversi fronti. Dati i presupposti, Giovan Battista Cornaro fin da subito intravide il proprio riscatto sociale attraverso la figlia Elena pensando di farla diventare la Minerva Veneziana.

Non cambiò mai idea invece sul matrimonio, infatti la giovane donna nel 1665 ricevette l’abito e divenne oblata benedettina pur continuando a vivere all’interno delle mura familiari; una scelta di vita che perseguì secondo la propria volontà. E’ all’interno della casa familiare, nella quale decise di coltivare la propria spiritualità,  che Elena conobbe Carlo Rinaldini (docente all’università patavina) che l’affiancò negli studi di filosofia e che nel 1669 le permise di essere accettata, come prima donna, nei Ricovrati.

Infine, il 25 giugno del 1678 le furono consegnate, la mantella d’ermellino, le insegne dottorali e la corona d’alloro; da lì a poco la storia di Elena fece il giro del mondo e furono molteplici le visite importanti che ricevette in questi anni. A causa del suo stato cagionevole di salute, a soli sei anni dal conseguimento del dottorato, nel 1684 scomparve prematuramente. La storia e il mito di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia rappresenta un esempio di amore per la conoscenza, dedizione allo studio e raggiungimento in piena consapevolezza di una vita vissuta secondo le proprie volontà.

 

 

Statua di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, 1678, Palazzo Bo, Padova, Fotografia di Mauro Magliani

Resistenza e Liberazione. Le parole di Michelle Coudray

Il 21 settembre 2021 presso l‘Archivio Antico di Palazzo Bo, sede dell’Università di Padova si è tenuta la conferenza stampa a seguito dell’intervento di restauro dell’opera dell’artista Jannis Kounellis, “Resistenza e Liberazione” situata nel Cortile Nuovo. Tra gli interventi quello della Presidentessa dell’Archivio Kounellis, nonché compagna dell’artista, Michelle Coudray.

«Vorrei prima di tutto ringraziare a nome dell’Archivio Kounellis tutti quelli che hanno collaborato al restauro del lavoro di Jannis Kounellis nel cortile dell’Università di Padova Palazzo Bo: il Rettore Prof.re Rosario Rizzuto, la Prorettrice Prof.ssa Giovanna Valenzano, la Fondazione Alberto Peruzzo che lo ha reso possibile, il Prof.re Guido Bartorelli per il testo che ha scritto, il Prof.re Gilberto Muraro che era Rettore nel 1994 e la Commissione del 1994, presieduta dal Prof.re Arturo Borsai, che ha effettivamente dimostrato un certo coraggio scegliendo un artista non dei più convenzionali per celebrare la commemorazione di tre importanti figure: Concetto Marchesi, Egidio Meneghini ed Ezio Franceschini».

Continua: «Jannis ha sempre trovato un punto di partenza per creare un’ “immagine“, come se avesse sempre voluto coinvolgerla, tenendo conto del luogo, del momento e delle circostanze. Il suo punto di partenza è lo spazio, in questo caso lo spazio nobile del cortile dell’Università, Palazzo Bo, e questa attenzione “dall’uscita dal quadro“ era praticata all’inizio degli anni ‘60 dagli artisti dell’Arte Povera e teorizzata in seguito da Germano Celant. Jannis però non ha mai smesso di considerarsi un pittore, lo ha sempre rivendicato: “la mia è la logica di un pittore” che partiva dalla considerazione dello spazio, pensando anche all’affresco; raccontava che nei suoi primi anni all’Accademia a Roma andava ogni settimana a Firenze per visitare Masaccio nella Cappella Brancacci. Uno spazio interno dunque, non ha quasi mai usato un luogo all’aperto che non avesse un appiglio architettonico. Questa generazione di artisti ha lavorato in tutti gli spazi dove una volta c’erano il lavoro e vita, rispettando così l’architettura di questi luoghi dettata dalle loro funzioni (vecchi palazzi, vecchie fabbriche in disuso, ex chiese) facendo anche una mostra nella pancia di un cargo mercantile al Pireo. Scelse di sistemare il lavoro nella posizione meno retorica possibile all’angolo del Cortile Nuovo sotto le arcate; l’inserimento nell’architettura era un suo credo, dettava la misura del suo intervento, e questa è una regola che ha sempre rispettato, evitando di imporsi (usava la parola “inserirsi nello spazio“) e cercando un dialogo con gli eventi che avevano segnato il luogo, un aggancio storico o letterario. In questo caso la figura di Galileo e la sua cattedra, tutta fatta di semplice legno, furono il suo punto di partenza, unito ideologicamente con la grande lezione di civiltà e di cultura rappresentata dai tre professori. Inutile dire che si sentiva molto partecipe delle loro

«Questo muro di frammenti molto sobrio, costruito su due elementi in dialogo, come nella più grande parte dei lavori di Jannis, una struttura ed una sensibilità, le vecchie lastre di legno vissute, quasi monocolore, raccolte in giro per la città, sempre in eccesso, tutte sparse al pavimento. Con occhio attento e gesti lenti le sceglieva una dopo l’altra e chiedeva al suo assistente Damiano Urbani che fossero disposte una sopra l’altra come un ricamo, senza soffermarsi sul lato estetico, sul colorino piacevole verso il quale l’occhio poteva fermarsi per un attimo e dopo una costruzione meticolosa lo lasciava libero e leggero fino al soffitto del portico».
«I Frammenti di legno hanno una data ed un percorso, la prima volta a Berlino nelle finestre del palazzo Martin Gropius Bau che si affaccia sul bunker della Gestapo distrutto e all’epoca ancora riempito di frammenti, poi anche in teatro con Carlo Quartucci e altre occasioni».

Infine: «Le tre bandiere che chiudono i pannelli sul lato, senza retorica, che scendono non sbandierate, con semplice gestualità all’angolo, come fossero un getto di colore, come se fossero fiori. Penso che le bandiere hanno anche in questo caso, come i fiori che ha usato in certi lavori e sulla scena in teatro, un significato di nobile lutto. Ha voluto essere estremamente sobrio perché ha sempre tenuto ferma in mente l’occasione per la quale stava lavorando e il grande rispetto per i tre professori a cui era dedicato questo suo “affresco”. Non ha mai derogato a questa regola, ed ogni volta che ha partecipato ad una commemorazione ci si è avvicinato con grande delicatezza. Lo fece per il pittore Mario Mafai che fu un suo professore e per il quale gli fu chiesto di collaborare ad una mostra. Fece un semplice gesto, mise al muro una serie delle sue lamiere di ferro con delle mensole nude sulle quale appoggiò semplicemente, uno accanto all’altro, i quadri di Mafai, come prenderlo in braccio e nient’altro. Mafai diceva che la sua era una generazione del “dopo- dopoguerra“ e Jannis ne condivideva lo spirito, per questo il suo frammento nasce necessariamente dopo una tragedia, ma ha un compito positivo, è innamorato del frammento che restituisce in un attimo il sapore di un’unità perduta e ne conserva in seme le regole della ricostruzione».

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Jannis Kounellis, Resistenza e Liberazione, 1995

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Jannis Kounellis, Dettaglio dell’opera Resistenza e Liberazione, 1995