La ricerca di Esther Stocker, fin dai suoi esordi, ha utilizzato un elemento che contraddistingue la produzione artistica dalla metà degli anni Venti del secolo scorso: la griglia. Per Rosalind Krauss è un ingrediente essenziale del ‘mito modernista’ anche grazie alla sua “straordinaria longevità nello spazio specializzato dell’arte moderna”. Il dispositivo d’ordine basato sull’ortogonalità e nella sua più dichiarata evidenza (reticolo nero su fondo bianco, oppure la loro inversione) è ciò che caratterizza le tele dell’artista dalla metà degli anni Novanta, periodo durante il quale completava i suoi studi prima all’Accademia di Belle Arti di Vienna, poi a quella di Brera, e infine all’Art Center of Design di Pasadena.
La griglia può essere concepita come una sorta di grado zero dell’immagine pittorica, una sorta di sfondo da cui partire, o meglio ripartire, una volta si sia portata a compimento il lavoro di destrutturazione delle modalità di rappresentazione del mondo ‘esterno’. Le ripartenze sono state molteplici durante il corso del Novecento, la longevità di cui parlava appunto la Krauss, ma viene da chiedersi se ciò sia effettivamente dovuto all’essere la griglia un mito, se non il mito per eccellenza che attraversa l’arte del secolo scorso, oppure se vi sia qualcosa di non esaurito, di concretamente attingibile, in quel dispositivo che si affaccia anche negli anni duemila. Forse bisognerebbe esercitarsi fenomenologicamente, sospendendo il giudizio sul molto che si è praticato, visto e scritto intorno a quello sfondo ortogonale, per riconsiderarlo nella sua evidenza: un reticolo di relazioni formali primarie date dall’interazione fra linee e superficie, agerarchico, seriale, neutro.
La ricerca della Stocker, partendo da questo assunto, mette in campo due soluzioni: la prima, legata alla produzione di quadri di medie e grandi dimensioni, opera all’interno del sistema primario cui si è fatto riferimento, producendo moltissime varianti del medesimo sistema agendo sulle dimensioni dei riquadri e delle linee componenti griglia stessa, utilizzando poche tonalità di grigio, oltre alla diade già nominata, introducendo però delle alterazioni formali, senza venga mai del tutto meno il principio della ortogonalità. Il concetto di alterazione della regolarità è l’elemento discrasico introdotto dalla Stocker nel sistema a griglia,
le linee, o meglio le relazioni fra le parti entro una superficie data, non producono solo una, prevedibile, coincidenza (e ordine, rispetto alle stesse attese dell’osservatore), ma un imprevedibile e inatteso disallineamento, della geometrica struttura bidimensionale. Una sorta di ‘disordine’ programmato, quasi il sistema in fase di costruzione avesse ricevuto un urto, o avesse subito una sorta di effetto glitch, e le linee-relazioni non coincidessero più. La seconda soluzione proposta è molto coerente con le premesse bidimensionali: lo spazio tridimensionale, e non più la sola parete, diventa l’altro elemento che caratterizza
la ricerca dell’artista di origini alto-atesine. Stiamo parlando della produzione di ambienti grazie a complessi interventi installativi realizzati entro spazi soprattutto a vocazione museale o comunque aventi ricadute sulla sfera pubblica.
Si tratta di installazioni site specific che assumono le caratteristiche e le dimensioni del luogo espositivo come punto di partenza per generare installazioni concretamente immersive, dove lo spettatore si aggira all’interno di un sistema per un verso rigorosamente progettato e costruito e, per altro verso congelato e sospeso durante un processo interno di collassamento. Interventi site specific concepiti quali architetture altre paradossalmente rese possibili proprio dalle strutture funzionali, e istituzionali, ideate dagli architetti.
Nel progetto proposto per la navata della ex-chiesa di Sant’Agnese gli elementi caratterizzanti la ricerca di Stocker si ritrovano tutti, anche se si tratta di recenti e recentissimi sviluppi della sua produzione che portano ai limiti gli stessi presupposti di partenza. Ritroviamo il trattamento bidimensionale nei grandi quadri a parete, con la diade del bianco e nero, ma il processo di collassamento viene spinto fino alla completa dispersione del dispositivo d’ordine, generando una polverizzazione dei suoi elementi primari, riducendoli a variazioni di particelle quadrate in una spazialità che ha qualcosa di non terrestre, quasi si trattasse di una sorta di istantanea dello spazio cosmico nella sua evoluzione. Difficile non pensare, sempre a proposito della longevità della griglia, alle origini costruttiviste, e cosmiche, della forma quadrata. Dove però l’ortogonalità subisce un vero e proprio processo di radicale destrutturazione è nelle proposte volumetriche di Stocker, nelle concrezioni tridimensionali che costellano lo spazio della ex-navata distribuendosi a pavimento e sulle pareti, sorta di corpi satellitari in fase di contrazione dove ogni singola componente geometrica, l’imperitura griglia, principio compositivo per eccellenza basato su regolarità e ripetizione, viene sottoposta ad un processo di decostruzione che la disarticola, la comprime, la riduce poco più che a un resto senza però smentirne del tutto l’origine ordinativa, quasi l’architetto ancora una volta avesse sbagliato il suo progetto e gettato i foglimillimetrati in un abissale cestino. Viene così generandosi uno scenario dove convivono e collidono virtualità concettuale di uno spazio senza limiti e sua fisica concretezza, scenario all’interno del quale si muove sorpreso e disorientato il visitatore, come in un sogno di paradossale precisione.