Esistono luoghi destinati al culto che non aspettano di perdere la loro funzione per diventare spazi di espressione dell’arte contemporanea. Così ad esempio la Chiesa di San Fedele a Milano, che da decenni si è aperta all’arte contemporanea e pochi anni fa ha anche dato vita al Museo San Fedele.
Vi sono poi casi nei quali i luoghi ecclesiastici perdono la loro funzione originaria, ma rimangono gestiti da organizzazioni inerenti alla Chiesa e diventano ambiti di dialogo con l’arte contemporanea. È il caso dell’ex oratorio San Lupo di Bergamo, spazio affascinante su due livelli realizzato nel XVIII secolo dall’architetto Ferdinando Caccia per la giovanile Confraternita della Morte. È gestito dalla Fondazione Adriano Bernareggi, strumento della diocesi di Bergamo, e si presenta come “particolarmente attenta alle ragioni specifiche che la cultura cristiana aspira a condividere con chiunque ricerchi con serietà il senso delle cose”. Il direttore scientifico, don Giuliano Zanchi, dal 2007 dà vita all’ex oratorio ad un programma di mostre di alto livello, avendo ospitato nel tempo esposizioni di artisti come Jannis Kounellis, Vincenzo Castella, Andrea Mastrovito, Getulio Alviani, Giovanni Frangi, Claudio Parmiggiani.
In quest’ultimo caso si è scelto un artista che spesso si confronta con la dimensione religiosa – si pensi ad esempio alla realizzazione dell’altare maggiore nella cattedrale di Reggio Emilia -, e conosciuto per le sue Delocazioni, opere realizzate con la polvere, il fuoco e il fumo, in maniera leggera, allusiva ed evocativa.
In Parmiggiani l’approccio col sacro ha a che fare con la nostalgia, con qualcosa di forte che c’era e che l’uomo ha perso.
Nel caso di Kounellis, invece, i materiali sono grevi, visivamente molto presenti. In una installazione del 2009 all’Oratorio, l’artista allora vivente decise di esporre vecchi abiti sul pavimento della grande aula rettangolare, ovvero le spoglie mortali di persone che non ci sono più, e gli abiti sono praticamente tutti uguali, perché la morte accomuna tutti e annulla le differenze. Lo spazio di San Lupo è stato per lungo tempo utilizzato come ossario: proprio questo aspetto un po’ macabro ha offerto la giusta ispirazione all’artista di origine greca.
L’installazione era poi arricchita da un’enorme pesante croce di metallo arrugginito, che sovrastava il resto, dando una dimensione inequivocabilmente religiosa al tutto. Una sorta di atto unico di grande impatto e forza comunicativa, quasi drammaturgico.
Una delle ultime installazioni, nel 2019, è stata ad opera di Maurizio Mazzoleni che ha posizionato un prisma ottagonale monolitico, verticale, alto poco più di dodici metri, come archetipo della torre di Babele, costruendo la sua torre mattone per mattone, segno dopo segno, e ci ha stratificato memoria, esperienze, emozioni, inconscio.
L’appeal sinistro e particolare dell’Oratorio di San Lupo dimostra una grande attitudine al desiderio di ricreare spazi di un ascolto virtuoso e anche disinteressato fra la cultura cristiana e le migliori espressioni della cultura contemporanea.
Don Zanchi dice: «Penso che un atteggiamento di questo tipo non sia semplicemente un gesto di buona volontà. Appartiene al contrario proprio alla natura specifica di una cultura evangelica, perennemente animata dalla passione per l’uomo, capace quindi di ascoltarne la voce, la sensibilità, l’estetica, la cultura. Questo è un lavoro che il cristianesimo ha fatto in tutte le epoche».
Uno spazio di confronto, quindi, ed anche di ricerca e sperimentazione, che unisce anime che a volte sembrano inconciliabili, donando un ruolo nuovo a luoghi religiosi.