Credo pochi ricordino il logo delle Olimpiadi di Barcellona del 1992. Sopra gli immancabili cinque cerchi c’era un atleta stilizzato. La testa era blu come il mare e le braccia e le gambe gialle e rosse come la Spagna. Da buon campione correva e allargava le braccia per celebrare la vittoria, un po’ come fanno i maratoneti o i ciclisti quando per primi tagliano il traguardo e si aprono al pubblico e al cielo per raccogliere il successo.
E in effetti le Olimpiadi del 1992 furono una festa e un successo, anzi furono un successo proprio perché furono una festa.
Sulla Costa Brava andò in scena il giubileo dello sport e del rinnovato ordine mondiale. La nuova Barcellona ricordò a tutti che i due mondi erano finiti e ne era rimasto uno unico dove migliaia di territori potevano concorrere sulla piazza globale.
Così fece la capitale catalana. Con l’Olimpiade mise in atto un importante progetto di conversione culturale e industriale basato sul turismo, il divertimento e la creatività. Fu un movimento epocale quello intrapreso da Barcellona – ma il discorso vale anche per Berlino, Dubai, Milano e Bruxelles, tra le altre – interrotto in circa trent’anni solo da un infame attacco terroristico e, oggi, dal Neovampirismo sconosciuto del Coronavirus.
Ma torniamo al logo di Barcellona 1992. È così svelto nel tratto e colorato che pare di trovarsi davanti a un dettaglio di un quadro di Mirò, il grande artista nato nell’aprile del 1893 nella capitale catalana. Anche io sono nato ad aprile e nell’aprile del 1992 ero a Barcellona a visitare con i compagni di scuola la città e le sue sfavillanti meraviglie olimpiche. Sulla collina di Montjuic tirata a lucido per l’occasione, si trova dal 1975 anche la Fondazione Joan Mirò.
A quella data per me visitare un museo era cosa piuttosto insolita. Ero abituato a qualche sporadico pellegrinaggio con mio padre al Castello di Rivoli, quello che poi sarebbe diventato il mio personale “tempio”, e a alcune sporadiche visite al polverosissimo Museo Egizio o alla didascalica collezione della Galleria d’Arte Moderna di Torino.
La Fondazione Mirò fu una lavatrice. Entrai in un modo e uscii in un altro. Anni dopo il maestro catalano mi diede forti nausee, ma in quel momento Mirò, l’artista che più di tutti è stato capace di mettere in equilibrio la linea, il colore e la forma, mi trascinò in un universo governato da un unico verbo: FACILE. Sì, Mirò rendeva quegli anni e il mondo a venire facili e possibili.
E infatti dalla terrazza e dal bookshop di quel museo iniziò per me un percorso di studio, scoperta, esplorazioni e fantasie, alcune buone, altre meno, ma senza quella sensazione positiva ed eccedente tutto sarebbe apparso irrimediabilmente inappropriato, stantio, lontano e irraggiungibile. Quella sì che era scuola!
Biografia
DENIS ISAIA | Curatore al MART Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e critico d’Arte Contemporanea. Nel 2006 avvia il concorso per giovani curatori Best Art Practices. Nel 2007 vince il premio per giovani curatori Borsa Arte Giovane di Genova. Nel 2008 è assistente dei Raqs Media Collective per Manifesta 7 con cui co-cura i 45 eventi in 111 giorni del progetto Tabula Rasa. Nello stesso anno fonda il Premio europeo alle passioni di lungo corso alla sua seconda edizione. La sua ricerca si concentra sulle pratiche curatoriali eterodosse. Da novembre 2012 è membro del board curatoriale del DOCVA e dal 2013 curatore insieme a Simone Frangi e Barbara Boninsegna di Live Work, Premio per le Arti Performative di Centrale Fies. Ha sviluppato progetti collettivi e mostre personali fra cui: From and to, Ognuno è internazionale al suo presente, Qatees, Three stories of balance on the threshold of fiction, Il titolo è il pubblico, Panorama4.. Tra le ultime mostre curate, “Contemporanee-Contemporanei” con opere della collezione Fasol presso l’Università di Verona.